Il 16 ottobre 1969 esce in Italia La Caduta Degli Dei di Visconti, l'11 aprile 1974 Il Portiere Di Notte, il 10 gennaio 1976 Salò di Pasolini, il marzo 1976 Salon Kitty; se vi eravate sempre chiesti da dove derivasse il filone (italiano) del nazi erotico, quali fossero stati i padri nobili dell'eros-svastica, se i deliri di un Batzella, di un Garrone, di un Caiano o di un Mattei avessero un piano superiore, una matrice più alta, un livello di lettura più profondo, una scaturigine concettualmente più profonda e intellettuale, quelli sono i quattro nomi a cui fare riferimento. Profondamente diversi eppure tutti appartenenti ad una stessa ideale famiglia. Salon Kitty è l'ultimo dei quattro ad arrivare in ordine di tempo, ben cinque anni lo separano dal precedente lavoro di Brass (La Vacanza), per altro completamente diverso. Brass era tutto intento nell'elaborazione di un progetto dedicato alla famiglia Borgia, ma difficoltà produttive ne resero di fatto impossibile la produzione; gli venne così proposto di dirigere un adattamento del romanzo di Peter Norden. Inizialmente il regista veneto non si dimostrò entusiasta, poi grazie soprattutto alla figura di Ennio De Concini come sceneggiatore (coadiuvato da Maria Pia Fusco) abbracciò l'operazione con più convinzione.
Il cast tecnico fu tutto voluto da Brass; oltre a De Concini arrivò Jost Jacob ai costumi, un diciottenne che Brass dovette praticamente imporre alla Produzione, data la sua giovane età, accettando il compromesso di affiancargli il più stagionato Ugo Pericoli. Jacob si occupò in particolare degli abiti delle prostitute, mentre Pericoli si concentrò sulle divide naziste (alcune degne dei supereroi, come quella argentata e glitterata, con le doppie S sul petto, che Berger sfoggia nella scena della stanza degli armadi bianchi, o l'altra nera, sempre di Berger, attillata, di pelle e col mantello rosso). Come scenografo fu chiamato Ken Adam, che aveva lavorato al Dottor Stranamore e a Barry Lyndon con Kubrick. Brass racconta che Adam era in un momento particolare della sua vita e carriera, esausto dalla collaborazione con Kubrick, sull'orlo di una seria depressione, demotivato e quasi incapace di lavorare. Fortunatamente il contatto con l'estroverso Brass rivitalizzò Adam che anzi sposò a pieno la filosofia e la visione estetica di Brass, esaltandola ulteriormente con arredi ora jugenstil e art nouveau, ora art decò (si veda ad esempio la differenza di stile tra i due bordelli di Madame Kitty, il primo a Berlino, pre invasione della Polonia, ed il secondo, più decentrato, durante la guerra). Brass volle Adam non solo per stima professionale, ma anche perché lo scenografo era un tedesco, ebreo di Berlino, quindi perfettamente in grado di comprendere dove il film sarebbe andato a parare, tanto che Adam ricorse a ricordi d'infanzia per immaginare gli ambienti nei quali si sarebbero mossi i personaggi del film. Brass amava definire il suo film come "lurido lucente", una definizione che ben sintetizzava il tocco tanto suo quanto di Adam e del reparto costumi.
Nonostante il regista non avesse minimamente letto il testo di Norden, sviluppò generosamente il soggetto che gli fu sottoposto, mantenendo solo ambientazione e svolte narrative salienti del libro, e portando la storia laddove egli era più interessato; non tanto nella direzione di una cronaca/critica del periodo nazista, quanto verso una metafora sul potere in genere, quello con la P maiuscola. Le peculiarità della grammatica nazionalsocialista vengono solo minimamente lambite, a Brass interessa più che altro mettere in luce come la lotta sia per il potere; in pratica si tratta del monologo finale di Helmut Berger quando, adorato come un idolo (letteralmente) da una Teresa Ann Savoy prostrata ai suoi pedi, proclama quanto dei generali del nazismo e dei valori di quella ideologia non gli importi alcunché, ma si tratti solo ed esclusivamente di potere. Brass riduce le alte gerarchie dei portatori di svastica ad una banda di gangster che mettono a ferro e fuoco dapprima la Germania, poi l'Europa intera. Né più né meno che criminali dell'epoca, esaltati ancor più dalla acritica condivisione dell'alta borghesia incancrenita e opportunista. Il ricorso al sesso in Salon Kitty non ha granché di erotico, anzi le scene di nudo e gli accoppiamenti sono quasi sempre sgradevoli, funerei, morbosi: qui il sesso serve a Brass come metafora sul potere, come mezzo per ottenere un fine, in modo sensibilmente diverso rispetto a quella che si attesterà poi come la tipica poetica brassiana del rifiuto della sinergia di eros e thanatos in favore di un sesso esclusivamente giocoso, ridanciano, spensierato.
Questo non significa che, pur nel suo nefasto cinismo, Salon Kitty non abbia momenti di ridicolo (in)volontario, di ironia nerissima; si pensi alle pattinate di John Steiner sui marmi del bureau nazista (citazione de Il Grande Dittatore di Chaplin), alle insensata foga permanente di Raus (Dan Van Husen), una vera e propria caricatura di nazista, o alle perversioni sessuali degli avventori del bordello di Kitty. La critica italiana accostò in fretta ed in furia Salon Kitty alle precedenti pellicole di Visconti e della Cavani, circoscrivendo il film ad una specie di brutta copia derivativa. Questo secondo Brass per via della mancanza di acume dei nostri critici (la faida con quella fazione pervicacemente e ferocemente avversa sarebbe andata di gran lunga a peggiorare nei decenni successivi). L'interesse andava tutto verso il significato del film ("qual è il messaggio?"), disinteressandosi completamente del significante. Ovvero, massima attenzione al contenuto, nessuno alla forma (se così non fosse stato, in Italia non sarebbero esistiti neppure i cantautori, per dire). Errore madornale da commettere con un regista come Brass, devotissimo della forma, al punto che spesso l'ha fatta prevalere forzatamente anche sui contenuti dei suoi film. Per rappresentare la "depravazione" occorreva essere altrettanto depravati nel mostrare; spettava poi allo stile del linguaggio, della messa in scena, alla mediazione estetica con cui si rappresentava, dare la cifra, fungere da spia del benedetto "messaggio" dell'autore.
Stilisticamente Brass di accorgimenti ne adotta parecchi. Tutto il film, si può dire, è una ottimizzazione in tal senso, una espansione di grafia estetica. Con Adams erige architetture con pareti convergenti, secondo la lezione dell'espressionismo tedesco che vedeva in ambienti simili una chiave per il senso di minaccia, di incombenza, di soffocamento. Le eco più o meno accidentali con Kubrick e Fellini si sprecano. Ricorre ad infiniti giochi di specchi (tratto tipico brassiano e metafora pressoché infinita di dissimulazioni ed inganni), orchestra le scene (soprattutto di nudo) come veri e propri balletti coreografati (si pensi alla prima orgia nel forum sportivo tra soldati tedeschi e ausiliarie delle SS, o all'assassinio di Wallenberg). Brass strumentalizza anche Il Trionfo Della Volontà di Leni Riefensthal, vero e proprio compendio di iperrealismo nazista, facendolo proiettare da un cliente del bordello sul corpo di una delle prostitute (la quale a sua volta, quasi gode orgasmicamente di un simile privilegio, con tanto di fascia autoreggente alla coscia recante la svastica). Ci sono momenti visivamente molto duri, come lo scuoiamento dei maiali, di stampo quasi mondo movies (invero piuttosto estremo, ai limiti del gratuito, anche se nell'efferatezza del contesto ci sta), o le terribili prove di iniziazione alle quali sono sottoposte le donne del Reich candidate al meretricio "eroico" per il bene della nazione e del loro Fuhrer (l'accoppiamento violento e/o contronatura, o ancora con deformità e mostruosità di ogni sorta), per testarne il livello di resistenza e accettazione incondizionata. E il salon di Kitty stesso è un luogo di freaks, uomini orrendi, bruttissimi, grassi, segnati da cicatrici, voglie pelose, ambiguità identitarie e perversioni a iosa. Una visione decisamente opposta e contraria ai casini che Brass metterà poi in scena nei vari Paprika, Fermo Posta, eccetera.
Il film inizia subito con la cifra del doppio, dell'ipocrisia, della estremizzazione in direzione del parossismo, anche spettacolare; basti pensare al numero di Madame Kitty (Ingrid Thulin), che si esibisce in un vorticoso scontro di personalità maschile e femminile (aiutata anche da lineamenti propri molto androgini). Intensa la sua prova durante tutta la pellicola. Berger e la Savoy hanno una recitazione più misurata, più "iconica", ma non per questo meno efficace. Berger poi è doppiato da un Gigi Proietti indiavolato (come la caratterizzazione nazista richiedeva), creando a tratti effetti di straniamento del tutto particolari. Da segnalare nel manipolo di prostitute molti volti noti (e non solo quelli...) del cinema di genere italiano del decennio, come Paola Senatore, Patrizia Webley, Malisa Longo (che ritroveremo poi come bestia di Spilberg e come Fraulein Kitty, con evidenti rimandi alla pellicola di Brass). Teresa Ann Savoy fu anch'essa una scelta fortemente voluta da Brass, che rifiutò le varie "attricette" (così le definì) propostegli dalla Produzione, la quale a sua volta non vedeva di buon occhio la Savoy. Questa, dopo un servizio bollente su Playmen del '72, e la prova con Lattuada in Le Farò Da Padre, convinse invece Brass, che se ne servì anche nel successivo Caligola. Inutile dire che la censura andò a nozze con un film del genere, esigendo tagli su tagli. Il produttore Giulio Sbragia si incaricò personalmente del nuovo montaggio per permettere l'uscita in sala. Brass andò su tutte le furie, chiedendo che il suo nome non venisse più accreditato, e di fatto disconoscendo la versione circolata inizialmente in sala. E' noto infatti come anche la fase del montaggio sia un tratto fondante e caratteristico del cinema brassiano così come viene concepito dall'autore, il quale attribuisce al montaggio un importanza pressoché paritetica al girato.