
Ugo Facco De Lagarda, poeta e partigiano, dalla seconda metà degli anni '40 del '900 collabora con diversi quotidiani e riviste e pubblica anche molta narrativa e prosa per teatro. Il Commissario Pepe è del 1965 e già quattro anni dopo Ettore Scola ne trae un adattamento cinematografico. Facco De Lagarda è coinvolto nel soggetto del film, la cui sceneggiatura poi però è sviluppata da Scola e da Ruggero Maccari, braccio destro del regista, nonché firma su molti classici del nostro cinema (Signori, In Carrozza!, La Famiglia Passaguai, Miseria Nobiltà, I Tartassati, Il Sorpasso, Anni Ruggenti, giusto per citarne qualcuno). Antonio Pepe (Ugo Tognazzi) è il commissario di una imprecisata cittadina veneta, e lui stesso a presentarcela, descrivendola come un luogo tranquillo, ordinario, in linea con buona parte della provincia italiana di fine anni '60. Qualche contestazione operaia (sempre senza alcun esito concreto), qualche contestazione studentesca (altrettanto velleitaria), a masse la domenica, fabbriche e case borghesi. Non succede mai granché e la Polizia al massimo deve occuparsi di ordinare i panini per pranzo o calmare qualche ubriacone da osteria. Pepe è un uomo bonario, che esercita la professione con buon senso e misura, consapevole le fragilità umane confliggono con l'eccessivo rigorismo. Egli stesso coltiva una relazione sentimentale con una paesana, senza alcuna controindicazione particolare, e tuttavia i due amanti tengono il rapporto segreto e clandestino per evitare il chiacchiericcio.
Qualcosa si muove quando Pepe riceve un fascicolo d'indagine sul malcostume della provincia. Passo dopo passo il commissario scoperchia un caso di Pandora fatto di prostituzione, case d'appuntamento, omosessualità (anche tra le mura conventuali), insospettabili coinvolti ad ogni livello, dal proletariato alla nobiltà, figlie di prefetti, sorelle di poliziotti. Più le indagini proseguono più Pepe rimane sconcertato dal livello di pervicacia e ipocrisia che i suoi concittadini dimostrano di possedere. Anche in questo caso Pepe tenta di agire con moderazione, sanando le situazioni prima di far scattare gli arresti e tuttavia chi delinque lo fa con una certa sfrontatezza, tanto da mettere Pepe con le spalle al muro. - SPOILER: quando il commissario scopre che anche la sua donna si allontana periodicamente da casa per trascorrere delle giornate a Milano dove partecipa a servizi fotografici osé, Pepe porta l'indagine al questore, il quale sconsiglia vivamente Pepe di procedere oltre e lo "consiglia" di espungere i nomi più delicati, elettoralmente parlando, paventando ripercussioni sulla carriera del commissario. Sconfitto e nauseato, Pepe getta al fuoco l'intero faldone, abbandona la compagna e si fa trasferire altrove.
Scola sceglie un registro estremamente malinconico, rassegnato e pessimista. Questo pesa un po' sul finale che forse eccede nel suo cupio dissolvi. Interessante l'idea di far rivolgere Tognazzi direttamente allo spettatore, guardando in camera durante un monologo molto sincero e fatalista. Si rimane però con un urlo strozzato in gola, perché la conclusione scelta è davvero la più rinunciataria e "perdente" che si potesse optare. Molto probabilmente è quella del racconto letterario - non saprei dire perché non l'ho letto - ma nulla vietata al cinema di dare una svolta più personale e meno avvilita. Anche perché durante le indagini viene usato lo stratagemma di trasferire su di un piano onirico l'istinto di Pepe di andar contro le regole e dare una scossa alla situazione. Accade più volte, quando vorrebbe avere tra le proprie braccia Silvia Dionisio (figlia 17enne del prefetto), quando vorrebbe annegare Giuseppe Maffioli, per aver appreso della doppia vita di Marianne Comtell, o quando immagina una catartica retata in chiesa, durante la messa, durante la quale non si salva neppure il prete e Pepe denuncia anche se stesso chiedendo di essere arrestato, in quanto connivente. La moralità del commissario è molto forte e vibrante, ed il solo essere venuto a contatto con una simile realtà, morbosa e corrotta lo fa sentire parte del vizio. Il reduce di guerra Nicola Parigi, interpretato da Maffioli (giornalista e gastronomo, qui al suo esordio come attore), è una figura quasi da teatro greco, una sorta di coro, una voce della coscienza che pungola insistentemente la comunità, ed in particolar modo il commissario. Il suo monologo triste e disperato sulla necessità di essere odiato e disprezzato - piuttosto che ignorato o compatito a causa della sua invalidità - per sentirsi vivo è molto intenso.
Il libertinaggio dei concittadini di Pepe è talvolta ritratto con una punta di beghineria e puritanesimo probabilmente da ricondurre al periodo storico. Mezzo secolo dopo, si fa quasi fatica a capire quale sarebbe la fattispecie di reato per alcuni di questi comportamenti. Così come la scena in cui Pepe è dilaniato dai dubbi sul come agire (dopo il colloquio con il questore) e ai suoi sguardi nel vuoto vengono associate immagini televisive di repertorio riguardanti le grandi tragedie umane, come ad esempio i bambini affamati dell'Africa, risulta altrettanto pedante e patetica. Il film tuttavia poggia su una regia solida, una bella descrizione dei luoghi e degli ambienti, dialoghi ben scritti e una recitazione di livello da parte di Tognazzi e comprimari, fino all'ultimo dei caratteristi, motivo per il quale tanti film dell'epoca, magari non brillantissimi per sceneggiatura, cascavano ugualmente in piedi. Bella la colonna sonora di Armando Trovajoli. Il film venne effettivamente girato tra Bassano Del Grappa, la Riviera del Brenta e Vicenza.