Shining

Shining
Shining

Si può dire ancora qualcosa su Shining? Si può vedere e rivedere un film duecentoquarantottanta volte? In qualche caso si, è possibile aggiungere le proprie emozioni e sensazioni personali a tutto ciò che è stato detto, si può continuare a godere di un'opera universale che abbatte i limiti del tempo e dello spazio per rimanere eterna, come accade nell'Arte (che poi è la quintessenza del'Arte). Finalmente ho potuto rivedere il film con i miei figli, passar loro il testimone, farli penetrare nel mondo di Jack Torrance, un mondo metafisico che va ben oltre la materialità fisica dell'Ovelook Hotel, oltre le pareti delle stanze che attraversa ed i tasti della macchina da scrivere su cui picchietta nervosamente. Sto parlando del mondo del passato che non è mai morto, che non è mai finito e che rappresenta il presente ed il futuro di Jack e di tutto coloro ai quali egli intende strappare via la vita, per imprigionarli nello stesso buco nero immanente nel quale lui per primo è stato confinato. Il film vive continuamente di queste fotografie inter-temporali, di questi ponti gettati tra ciò che è stato e ciò che sta accadendo, senza che per altro lo spettatore possa affermare con certezza che il vero tempo che sta vivendo sia l'uno o l'altro. Stiamo osservando il passato comodamente seduti su di una poltrona collocata nel presente o viceversa? Jack perde questa cognizione molto presto (anche se la progressione è resa magnificamente da Kubrick e con dei tempi perfetti), trovandosi totalmente immerso tra i due mondi, che si compenetrano continuamente, senza soluzione di continuità. Quando attraversa il corridoio che lo porta alla Golden Room dove si tiene la gran festa, ed il barista Lloyd lo aspetta, rivolgendoglisi come se Jack fosse un cliente abituale del bar, i brividi ci assalgono e ci divorano. Con un passo naturale e del tutto indolore, Jack (e noi con lui) ha varcato una soglia passando dal 1980 al 1921.

Delbert Gredy ce lo conferma, Jack è sempre stato lì, è il custode dell'albergo sin dall'inizio. E Mr. Grady lo sa perché anche lui è sempre stato lì. Grady è il cameriere, Grady è l'Overlook Hotel, Grady è l'essenza del Male stesso che impregna quella costruzione (eretta sui resti di un antico cimitero indiano, ci dice Stephen King e conseguentemente Kubrick, forse suo malgrado, perché questo tipo di trovate non appartengono molto alle corde del regista inglese). Siamo vis à vis con il male ancestrale, il male assoluto, un altro monolite nero, impenetrabile, insondabile e pure tangibile, lì di fronte a noi. Un altro momento sconvolgente, quasi del tutto impercettibile è lo sguardo che Nicholson getta dentro la macchina da presa, subito dopo aver litigato con Wendy. Di ritorno dalla camera 237 (dove si è imbattuto nel "fantasma" della bellissima donna nuda che poi si rivela morta e marcescente), dice a Wendy di non aver trovato un bel niente, e quando Wendy propone di abbandonare l'albergo per il bene innanzitutto di Danny, Jack va su tutte le furie, dando di matto e abbandonando l'appartamento (per dirigersi al bar). Uscito dalla stanza da letto, gira nel corridoio, scende le scale e si chiude la porta alle spalle. Un attimo prima di scendere le scale (mentre cammina verso la MdP), Jack alza lo sguardo, furioso; in tutte le scuole di cinema la prima cosa che viene insegnata è quella di non guardare mai diretti nell'obbiettivo, per non interrompere la "sospensione dell'incredulità" dello spettatore (che di colpo realizzerebbe di star vedendo un film, al di là della immaginaria quarta parete che lo separa dagli attori). Ma Nicholson non commette alcun errore, Jack guarda di proposito nella camera. Jack non sta guardando noi, sta guardando i suoi spettri, i suoi "superiori", sta guardando Delbert Grady e l'Overlook Hotel, i quali gli hanno assegnato un compito preciso che lui, al momento, non sta riuscendo a soddisfare. Jack è scalpitante ed imbestialito perché la cosa gli sta sfuggendo di mano e sta deludendo i suoi burattinai. Quindi non solo lo spettatore non si sente tradito e "scoperto" ma semmai viene scaraventato ancora più in profondità nel cuore della storia, Jack ce lo ha lanciato con la stessa forza con cui scaglia la pallina da tennis contro le echeggianti pareti delle sale vuote dell'albergo. L'albergo ci osserva continuamente ed ogni ripresa, con la steadycam, altro non è che lo sguardo del Male sugli sfortunati chiamati ad abitarlo.

Al netto di tutte le cose terrificanti che accadono nel film, quella forte più destabilizzante in assoluto è che Kubrick fece battere a macchina alla sua segretaria Margaret Adams le 500 pagine con su scritto (in ogni forma, modo e direzione) "All work and no play makes Jack a dully boy". La Adams impiegò svariati mesi lavorando ogni giorno per completare il lavoro; il che rende ancora più disumano Jack Torrance, considerando che lui impiega poco più di un mese per realizzare quanto ad un normale essere umano aveva richiesto molti mesi. Come è noto, Kubrick si assicurò che la frase avesse un corrispettivo in più lingue (italiano, tedesco, spagnolo, francese), quelle sono altre 500 pagine, per lingua. Ancora più sconcertante, se possibile, furono le critiche dell'epoca, alcune naturalmente entusiastiche, altre decisamente più fredde. Si disse che Kubrick aveva "distrutto" il bestseller di King (cosa che pensava lo stesso King), che il film era esasperatamente lento, ed arrivarono persino le candidature ai Razzie Awards per Kubrick e Shelley Duvall. Non venne affatto compresa la trasposizione su di un piano più schiettamente psicologico dell'orrore soprannaturale concepito da King. Kubrick voleva andare altrove (cosa sempre fatta con i romanzi dai quali ha tratto ispirazione per i suoi film), intendeva parlare della dualità umana e, nello specifico, della parte malvagia insita nell'uomo. L'eterno dilemma (volutamente) irrisolto del film è quanto le presenze che albergano nell'Overlook Hotel siano reali e quanto siano un parto della follia di Jack. Con l'unico punto debole della scena della cella frigorifera nella quale è imprigionato, "magicamente" aperta da Delbert Grady, l'unico momento nel quale Kubrick si vide costretto a scendere ad un compromesso e permettere al mondo dei morti di accedere fisicamente e concretamente a quello dei vivi, alterando gli eventi. Più in generale comunque, Shining è una grande riflessione sulla permanenza del passato, nei luoghi e quindi - per proprietà transitiva - nella mente degli uomini. Delle catene indissolubili dalle quali, a quanto pare, è inconcepibile liberarsi, una condizione che assomiglia molto ad una condanna immutabile ed ineludibile. Sulla "lentezza" del film c'è poco da dire, quella progressione sospesa e ieratica è un altro personaggio del film, esattamente come l'albergo; si tratta di presenze incorporee, impalpabili eppure perfettamente percettibili, che concorrono ad erigere l'intera architettura pensata da Kubrick. Semplicemente non sarebbe potuto essere altrimenti.

Sarebbe necessario spendere due parole anche sulla povera Shelley Duvall. Pure in questo caso, è oramai stra-noto come l'attrice abbia attraversato la lavorazione di Shining come un periodo di vero e proprio bullismo. Kubrick dette precisi ordini di isolarla e non mantenere alcun rapporto con le sul set, per esasperarla e farle sentire quel clima di accerchiamento che la stessa Wendy vive nella storia. La Duvall era una bellissima donna (apparsa su Playboy nel 1978), la cui bellezza è completamente spazzata via dalla disperazione e dallo sfinimento nervoso in Shining per "merito" di Kubrick. La sola scena della mazza da baseball sulle scale con Nicholson venne girata 127 volte. Era il metodo Kubrick. All'inizio gli attori davano una prova brillante e convincente, poi dal decimo ciak in poi cominciavano ad andare sopra le righe e strafare, non capendo bene dove Kubrick volesse arrivare; quindi continuavano a recitare per inerzia, esausti dalla energia e dallo sforzo di recitazione profusi; quando infine non avevano assolutamente più nulla da dare, ecco che arrivava ciò che Kubrick cercava, il ciak giusto. Era una lenta, dolorosa, sfibrante via crucis verso quello che Kubrick intendeva ottenere, e verso cui marciava con cinica ed inarrestabile determinazione. Da italiani, possiamo infinee vantare l'immenso doppiaggio di Giancarlo Giannini su Jack Nicholson, pareva quasi impossibile poter ottenere un valore aggiunto alla di per sé già strabiliante interpretazione di Nicholson, eppure "Torrance" Giannini compie il miracolo.

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