Lo spezino Giuliano Biagetti veniva da qualche pellicola di discreto interesse, rigorosamente di genere e che, col passare dei decenni (ma questo lui non lo poteva sapere), sarebbe divenuta materia di culto tra certi aficionados del cinema bis italiano del periodo. Mi riferisco a Interrabang (1969), Decameroticus (1972, accreditato come Pier Giorgio Ferretti) e Il Sergente Rompiglioni (1973, sempre come Ferretti). L'anno dopo Rompiglioni arriva al cinema con La Svergognata, prendendo una piega più marcatamente erotica che proseguirà per qualche altra pellicola (La Novizia, Donna...Cosa Non Si Fa Per Te). Ad essere onesti, etichettare La Svergognata come una pellicola erotica tout court si farebbe un torto, poiché se è vero che il film presenta anche quel determinato tipo di accenti, è altrettanto vero che la restrizione a quell'unico filone sarebbe fuorviante e riduttivo.
Innanzitutto il film è un bel film e questa medaglia viene prima di ogni altra considerazione relativa al genere. Biagetti dirige una storia non banale, ricca di dettagli e sfumature, e con una certa autorevolezza nel condurre i dialoghi ad approdo sicuro, elemento tutt'altro che secondario o trascurabile per questo tipo di storie. Solitamente infatti è più comodo e sbrigativo affidarsi alle sequenze "calde", magari chiamate a sopperire a sceneggiature vuote ed inconcludenti. Ci si ricorda di questo o di quel film per l'attrice o per quel nudo che rimane impresso assai più di tutto il resto. Biagetti invece bilancia bene; di sesso mostrato ce n'è poco, il necessario, di sesso ragionato ce n'è parecchio ed è funzionale alla trama, di erotismo in generale ce n'è moltissimo ma - come detto - è più celebrale (e celebrato) che rappresentato, proprio perché La Svergognata è sostanzialmente una storia sul potere del sesso anziché un pretesto facilone per portare gli italiani al cinema nel 1974.
Eleonora Cristofani, ribattezzata Leonora Fani, qui al suo primo vero ruolo importante, è la svergognata in oggetto, ovvero una lolita scombussolata da turbamenti erotici irrefrenabili. Il suo obiettivo dichiarato è lo scrittore Philippe Leroy, tombeur de femme decaduto, il quale probabilmente ha avuto pure una tresca con la madre (a sua volta cornificata ripetutamente dal marito farfallone, industrialotto del nord). La piccola e testarda Fani le prova tutte per irretire l'intellettuale e per la verità non deve neppure faticare molto per carpirne l'attenzione. Da quel momento inizia un gioco sadico e perverso che consiste nel portare sistematicamente Leroy al culmine del desiderio per poi lasciarlo con un pugno di mosche in mano. La Fani gode nel dominarlo, nel possederlo, nell'umiliarlo, invertendo i ruoli, lei la ragazzina ingenua e acerba capace di tener testa e soggiogare il maschio alfa, fatto e navigato. In questa tenzone incandescente si inserisce una vecchia fiamma di Leroy, nientemeno che Barbara Bouchet, attrice di grido col quale lo scrittore ha avuto una tempestosa liaison, naufragata tra litigi ed incomprensioni. Leroy prova a riaffidarsi alla Bouchet, nel tentativo di lenire le cicatrici procurategli dalla Fani. Ma le vecchie dinamiche di aggressione e violenza psicologica tra lui e la Bouchet si riproducono identiche, tanto da riallontanare nuovamente la coppia.
- SPOILER: Solo allora, bruciata dalla gelosia, la Fani si dimostra più accogliente e comprensiva nei confronti della preda cacciata con tanta severità. Per la prima volta riescono ad incontrarsi due umanità fragili e non due animali (uno braccato, l'altro predatore). Tuttavia, il desiderio finalmente soddisfatto di Leroy si risolve in una bolla di sapone, poiché la piccola ninfa - una volta posseduta - torna ad essere una ragazzina immatura, priva di interesse, mentre lui, l'intellettuale, prende atto di non aver risolto neanche uno dei suoi motivi di infelicità quotidiana che appestano le sue giornate su questa Terra.
Finale amaro, malinconico, anche se tutto sommato pure nostalgico e, in qualche misura, di rassegnata accettazione. Sarebbe stato facile buttare tutto in vacca e limitarsi ai seni adolescenziali della Fani o alla bellezza galattica della Bouchet, invece Biagetti dipana, riflette, ragiona, illustra, squaderna da varie angolature, dando credibilità e tridimensionalità ai suoi personaggi, anche i comprimari, anche quelli che servono solo a dare spessore al contorno. Intense ed emotivamente coinvolgenti le musiche di Berto Pisano. Grigia e spezzacuori l'isola di Ischia, che pare più invernale che estiva (il film si svolge durante le vacanze estive) forse proprio per riflettere lo stato interiore degli acciaccati protagonisti. Molto suggestivo il taglio drammatico ed autoreferenziale dato alla Silvia interpretata dalla Bouchet, un'attrice famosa e bellissima ma imprigionata in ruoli un po' volgarotti. Davvero pregevoli anche alcune scelte squisitamente di regia, come ad esempio la lunga sequenza sul finale in cui tutti i personaggi vengono ritratti nel mezzo delle proprie azioni con la musica che copre ogni rumore di scena, ogni parola, come si trattasse di un quadretto didascalico, una toten tanz di corpi e rottami che ripetono meccanicamente e ottusamente comportamenti privi di valore e significato. Drammatico lo sfogo della Fani tra le braccia di Leroy, quando si chiede perché proprio lei debba esimersi da un comportamento "svergognato", quando tutto intorno ogni adulto non fa altro che mostrarle che quella è l'unica via.