La Califfa

La Califfa
La Califfa

Esordio alla regia di Alberto Bevilacqua (1970) che riadatta il suo stesso romanzo, strizzandolo non poco, visto che spariscono personaggi minori, e sostanzialmente la vicenda si concentra sulla seconda metà del libro. Rimane un mistero come, dal niente, scrittori, musicisti, ma anche attori, si siano improvvisati registi nel mondo della celluloide; il cinema, come qualsiasi professione, ha un suo codice grammaticale, delle regole di sintassi, una sua lingua, ci sono dei mezzi tecnici da padroneggiare, con la sola intuizione artistica un film non lo si può realizzare. E' come se domani decideste di aprire uno studio per geometri o odontotecnici, potete essere le persone più brillanti ed intelligenti di questo mondo, ma il cosiddetto know how va "appreso", non ci sono scappatoie. Nel cinema evidentemente una c'è, ovvero circondarsi di una pletora di mestieranti che materialmente costruiranno il vostro film, ricevendo le vostre indicazioni "concettuali" sul come, cosa e quando. Bevilacqua era il detentore indiscusso del soggetto del film, conosceva umori, sfumature e risvolti della storia, la sua trasformazione in un lungometraggio di 90 minuti però risente evidentemente (e negativamente) della genesi letteraria. Bevilacqua infatti realizza un film pesantemente enfatico, retorico, ridondante, esasperato, gonfio, asfittico, tradendo la difficoltà di mutuare la parola scritta in fotogrammi.

Negli anni '60, dalle parti di Parma, i conflitti operai sono al massimo della violenza. Padronato, sindacati e lavoratori si scontrano ogni giorno. In città una fabbrica è fallita mettendo per strada decine di persone, durante le contestazioni è morto il marito di Irene Corsini (Romy Schneider), entrambi operai. Il capro espiatorio della rivolta viene individuato nell'industriale Annibale Doberdò (Ugo Tognazzi), uomo tutto d'un pezzo, con un passato anch'egli da operaio, ancorato ad una visione d'altri tempi del lavoro e del rapporto con i propri dipendenti. Doberdò non si tira indietro e si espone in prima persona nei confronti con gli operai. Il suo coraggio, la sua dignità, portano progressivamente Irene a mutare la propria opinione sull'uomo. Osteggiato dapprima come il più spregevole degli affamatori, Irene scopre l'umanità di Doberdò fino ad intrecciare, ricambiata, una relazione con lui. Di contro, Doberdò sembra rinascere a nuova vita grazie alla vicinanza di Irene, e accentua ancor più la sua indole progressista, accettando persino di rilevare la fabbrica fallita e facendola ripartire (un'operazione del tutto controproducente su di un piano economico ma meramente "umanitaria", come lui stesso la definisce). Riesce a convincere sempre più operai a stare dalla sua parte e mette addirittura in condivisione la fabbrica con i suoi dipendenti. La sua visione "illuminata" del condurre affari viene osteggiata e stigmatizzata dai suoi pari, gli altri industriali della zona, che invece risentono negativamente delle novità introdotte da Doberdò (poiché il loro dipendenti iniziano a far confronti). - SPOILER: finale tragico, contrariamente al libro, dove Doberdò muore di morte naturale, il capitano d'industria qui viene inappellabilmente punito per le sue scelte di coraggio, rimediando una pistolettata dietro la schiena. L'ultima scena lo vede morto, riverso contro il muro della sua fabbrica, all'alba di un mattino qualunque di quegli anni difficili.

Vicenda complessa e drammatica che certo meritava un piglio serio e intenso, ma che subisce un'eccesso di enfasi da parte del suo autore. Tognazzi è un attore mastodontico ed il suo mestiere salva parzialmente il film (inizialmente Bevilacqua però aveva pensato ad Anthony Quinn), tuttavia i dialoghi sono oltremodo carichi e gravi. Ogni frase proferita da Doberdò è un'apocalisse ultima, una sentenza esistenziale, un insegnamento ad eterno monito delle future generazioni; così come, sul versante opposto, la sguaiatezza operaia è sistematicamente ridotta ad un'ebete agitazione senza un perché, come fosse la coda tagliata di una lucertola, che si sbatte caoticamente prima di divenire carne morta. Persino Irene arriva ad odiare i suoi simili, ritenendoli dei ciechi sanguinari. Le musiche di Morricone purtroppo concorrono ad esaltare ed amplificare il già pesante carico di retorica che il film riversa sullo spettatore, rendendo alcuni momenti quasi ingestibili. Doberdò è un uomo sposato, ed il rapporto con la moglie, spento da anni, pare forse riaccendersi per osmosi, nutrendosi del calore portato da Irene nella vita di Doberdò. Ma è un fuoco di paglia, e a questa considerazione si rassegna persino la moglie, la quale decide di incontrare la rivale, arrivando a pregarla di star vicino al marito nei momenti di difficoltà. Una visione della moglie italiana, ai limiti dell'agiografico, da remissivo angelo del focolare degli anni '60. Doberdò è il personaggio forte del film, nonostante il titolo faccia riferimento a Irene (la "califfa", termine un po' sprezzante usato per definire donne troppo "libere" e indomabili), il suo magnetismo ed il suo carisma invadono tutto, tracimano su tutto; molto bello il suo rapporto con Massimo Serrato, un industriale che, sfiduciato dai colleghi (e dunque privato dai finanziamenti delle banche), arriva ad uccidersi, venendo poi idealizzato dai suoi lavoratori che lo usano come un'icona contro il capitalismo che invece li affama. I due industriali erano amici, e la notte prima del suicidio Serrato la trascorre sotto la pioggia, nel giardino di casa Doberdò, immobile davanti alla finestra di Annibale, perché lo veda e trascorra ore di sofferenza e tormento. La Califfa è un film disperato e nero, che non concede niente all'aspirazione, alla fiducia in un mondo migliore. Tutto viene distrutto, l'umanità, l'amore, tutto soccombe, come stritolato da un destino ineluttabile.

Trailer ufficiale

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