Il Sepolcro Indiano riprende esattamente da dove si era interrotto La Tigre Di Eschnapur, anzi presenta la storia allo spettatore con un riassunto iniziale propedeutico all'immersione nelle atmosfere indiane. Due parti di un'unica storia, entrambe uscite nel 1959 e successivamente riassemblate nella pellicola antologica Journey To The Lost City (1960). Proseguono le avventure della bella danzatrice del tempio Seetha (Debra Paget), innamorata dell'architetto tedesco Harald Berger (Paul Hubschmid) e per questo perseguitati dal Maragià Chandra (Walter Reyer), anch'egli innamorato di Seethra. La Tigre di Eschnapur si concludeva con la fuga dei due amanti nel deserto, sfiniti e oramai prossimi alla morte per sete e fatica. Qui vengono trovati e raccolti da una carovana di passaggio e lasciati a riposare ad un vicino villaggio. I cacciatori del Maragià sono sempre sulle loro tracce e alla fine riescono a riacciuffarli. Harald viene imprigionato a palazzo (ma fatto credere morto per mano delle tigri) mentre Seetha viene costretta a sposare il Maragià, grazie all'intercessione del fratello del principe, Ramigiani (René Deltgen), il quale trama segretamente per rovesciare il trono, ritenendo che lo sposalizio con una danzatrice disgusterà il popolo, la casta sacerdotale e le milizie reali. Nel frattempo a palazzo sono giunti, inconsapevoli, la sorella di Harald, Irene (Sabine Bethmann) e suo marito Walter (Claus Holm), architetto e collega di Harald. Con l'aiuto del fidato Asagara (Jochen Blume), scopriranno gli intrighi di palazzo e cercheranno in ogni modo di salvare Harald e Seetha, e di salvarsi.
Come è facile intuire, c'è un'assoluta continuità con il precedente capitolo, non solo da un punto di vista narrativo. Stessi ambienti, stessa fotografia, cromatismi, senso esotico e favolistico, un'avventura quasi "fantasy" con tanto di belve feroci, sotterranei/dungeon, passaggi segreti, lebbrosi/zombie, divinità onnipotenti, prodigi miracolosi, splendide fanciulle, uomini indomiti e coraggiosi, che siano votati al bene o che siano connotati da crudeltà e malvagità. Il Sepolcro Indiano ha ancora più ritmo de La Tigre Di Eschnapur, nonostante la componente "politica" del complotto ordito da Ramigiani occupi larga parte della trama. Stavolta Paul Hubschmid ha un ruolo "minore" (pur rimanendo l'eroe protagonista), poiché perlopiù giace incatenato nelle segrete del palazzo; prende il suo posto Claus Holm, meno virile come impostazione, ma ugualmente sagace e tenace, coadiuvato dalla volitiva moglie (nel film) Sabine Bethmann. Se Hubschmid alternava fascinazioni che poi arriveranno tanto a James Bond quanto ad Indiana Jones, Holm è uno studioso d'altri tempi, molto razionale e riflessivo, che tuttavia al momento giusto saprà farsi valere. La Paget con la sua bellezza magnetica riempie lo schermo; anche stavolta si esibisce in un ballo rituale, la scena clou del film, per altro di grandissima sensualità visto il ridottissimo costume indossato e le movenze ipnotiche della coreografia (che, non a caso, devono incantare un serpente). Molto intenso anche il finale, mi riferisco allo scontro tra Harald ed il Maragià, che darà adito ad un esito sorprendente ed inaspettato. Il ballo di Seetha nel tempio venne censurato nella versione uscita nelle sale italiane, un'assurdità imbarazzante, considerando l'importanza anche semantica che quella sequenza ha nello sviluppo della trama del film. Il dittico di Lang - gran cerimoniere della macchina da presa, la sua arte è tutta dispiegata in questi film - è un'opera senza tempo che merita assolutamente di essere vista e/o recuperata, cosa che a suo tempo hanno certamente fatto i vari Spielberg, Zemeckis, Carpenter, etc., per i propri film di taglio più schiettamente esotico ed avventuroso. Così come ne La Tigre Di Eschnapur era coinvolta la nostra Luciana Paluzzi (nei panni della devota serva di Seetha), anche stavolta, trattandosi di una co-produzione che coinvolgeva vari paesi europei tra cui anche l'Italia, il cast offre un nome italiano, quello di Guido Celano, generale delle truppe del Maragià.