
Il titolo italiano, per quanto suggestivo ed entrato nell'immaginario collettivo, non rende giustizia al film, rappresentandolo come qualcosa che non è, o che è solo parzialmente. La pellicola di William Friedkin viene relegata tout court all'universo dei giustizieri, dei vigilantes e della Polizia violenta, un'etichetta che non inquadra a dovere la poliedricità semantica del lavoro del regista de L'Esorcista. Cinque Oscar ed un blasone invidiabile più di qualsiasi statuetta, quello di aver innovato il genere ed aver istituito un canone al quale tutti i film venuti dopo hanno dovuto giocoforza rifarsi e tenere in debita considerazione. The French Connection è soprattutto questo, una novità, una boccata d'aria fresca per il filone del thriller poliziesco, uno spartiacque tra prima e dopo la visione di Friedkin. Tutto parte dal libro di Robin Moore, resoconto di fatti realmente accaduti, tanto che il personaggio interpretato da Gene Hackman, Jimmy Doyle, viene costruito su Eddie Egan, l'alter ego in carne e ossa che ha fatto quello che nel film viene drammatizzato (e molto altro ancora), assieme al suo collega Sonny Grosso (che diventa il Buddy Russo di Roy Scheider).
Il punto di vista di Friedkin è quello del cinema verità, di una sceneggiatura poliziesca a forti, fortissime iniezioni documentaristiche, a tutti i livelli. Innanzitutto la cornice, ovvero la fotografia, il montaggio e la regia. Quindi ambientazioni metropolitane degradate, fredde, ciniche e proletarie, nelle quali si muove la camera a mano del regista; una fotografia da verismo d'assalto, quasi lo spettatore seguisse in un qualche reality (chiaramente traslato negli anni '70) la vita quotidiana dei detective del distretto di Harlem, New York. Personaggi e dialoghi vanno nella stessa direzione, situazioni spicciole, routinarie che nell'arco di una giornata possono passare dall'estrema azione adrenalinica (gli inseguimenti e le sparatorie) alla massima noia e frustrazione (appostamenti e pedinamenti), con tutto il carico di una vita fatta di delusioni, amarezze e sconfitte. Papa Doyle (Popeye in originale) e Buddy Tristezza (Cloudy in inglese) hanno a che fare quotidianamente con criminali di piccolo cabotaggio, feccia e reietti con i quali è sin troppo facile mischiarsi e confondersi; riescono però ad annusare che qualcosa di grosso sta per accadere in città, strani movimenti, collusioni criminali, addirittura di livello internazionale, droga, traffici e ingenti quantità di denaro. Si tratta di capire chi, dove, quando e come, ma quel che è certo è che qualcosa succederà, e loro vogliono esserci per sventarlo e assumersene i meriti, dopo una vita piuttosto avara di gratificazioni e onori.
Friedkin rende labilissimo il confine tra poliziotti e malavitosi, buoni e cattivi. L'unico motivo per il quale Doyle e Buddy fanno più simpatia dei trafficanti è perché sono degli sconfitti, e l'empatia va sempre al perdente. A parte questo, i poliziotti sono se possibile umanamente anche peggiori dei criminali a cui danno la caccia. Il personaggio di Alain Charnier ad esempio (Fernando Rey) è un distinto manigoldo, sempre ben vestito, elegante nei modi, affettato e con un certo savoir faire, difficile averlo in spregio. Doyle invece inciampa in battute razziste, copula senza nulla a pretendere con donne adescate per strada (per il solo fatto che indossano degli stivali che a lui piacciono tanto), è attaccabrighe, arrogante e non si scompone poi troppo se per sbaglio accoppa un collega a revolverate anziché il tizio a cui sta dando la caccia. L'orizzonte complessivo è indubbiamente quello dei perdenti, e concetti quali etica, morale e giustizia non appartengono più a questo mondo. Non sono i valori a muovere gli attori del teatro di Friedkin, non c'è retorica, anzi Il Braccio Violento Della Legge è proprio il manifesto dell'antiretorica, in ogni suo aspetto, formale e sostanziale.
A livello strettamente registico tutto ciò è sostenuto da un grande estro narrativo. Ritmi che alla bisogna sanno farsi indiavolati e/o tesissimi; la scena dell'inseguimento dei vagoni del treno sopraelevato è entrata nella storia del cinema per la sua complessità, per il suo realismo e per la sua lunghezza. Fu Friedkin in prima persona a filmare le riprese più pericolose, poiché essendo l'unico senza famiglia a carico non avrebbe rischiato di lasciare vedove e orfani a casa (l'incidente automobilistico al quale si assiste durante la corsa di Hackman è vero, il pendolare che viene travolto nella sua macchina fu ad addirittura risarcito). Splendido il gioco di nervi tra Hackman e Rey nel "dentro e fuori" dei vagoni della metropolitana, così come incredibilmente aspro e angoscioso è il finale, tutt'altro che conciliante o "risolutivo". Hackam non fu affatto una prima scelta di Friedkin (e Rey venne addirittura coinvolto per errore dall'addetto al casting). Friedkin avrebbe voluto Paul Newman (fuori budget), oppure Jackie Gleason, Peter Boyle, Steve McQueen, Charles Bronson, o addirittura un giornalista del New York Times senza alcuna esperienza attoriale, Jimmy Breslin. Rifiutarono tutti per vari motivi (film troppo violento, troppo pericoloso da girare, troppo poliziesco, etc.). Ottime le musiche di Don Ellis. Nel 1998 il film è stato inserito dall'American Film Institute tra i migliori 100 film di tutti i tempi (passando dalla iniziale 70° posizione alla 90°). Due seguiti, uno ufficiale diretto da John Frankenheimer, sempre con Gene Hackman, l'altro un tv movie con Ed O'Neil nel ruolo di Popeye.