Ho l'impressione che con Tre Passi nel Delirio (1968) ci si potrebbe scrivere un intero volume. Il film è talmente pieno di significati simbolici, allegorici, o semplicemente strampalati, che ce n'è da uscir matti. Tre episodi, ispirati ad altrettanti racconti di Edgar Allan Poe, diretti da tre registi solitamente non inclini a tematiche così macabre, oscure ed angoscianti come quelle invece qui richieste. Vadim dirige Metzengerstein, Luis Malle dirige William Wilson, Fellini dirige Toby Dammit. Il registro dei tre aujtori differisce sensibilmente, pur mantenendo un filo nero comune, e questo giova senza dubbio alla visione. Per altro gli episodi durano attorno ai 40 minuti ciascuno (quello di Fellini ovviamente è il più lungo), un tempo congruo per dare agio alla storie e agli attori.
Il giudizio critico, da quanto leggo in giro, è abbastanza unanime nel reputare l'episodio felliniano il più alto e riuscito, quello di Vadim il più modesto, quello di Malle sempre modesto ma migliore di quello di Vadim. Io, che non sono un critico, ma solo uno spettatore con modesti mezzi culturali, ho provato un piacere inverso; sarà che apprezzo assai Vadim, ma il suo Metzengerstein è quello che ho preferito, proprio per "l'erotismo estetizzante" di cui parla (in tono sprezzante) il Mereghetti. Vadim ricorre al suo feticcio Jane Fonda (l'altro è la Bardot, che però fa comunella con Malle) affidandole il ruolo della contesa Frederica di Metzengerstein, crudele, perversa, cinica, idealmente imparentata con i personaggi desadiani. Orge, umiliazioni, sopraffazione, feste debosciate, una vita condotta inseguendo l'epicureismo ma sempre con un taglio maligno; un personaggio non proprio ritagliato sulla graziosa femminilità della Fonda, che invece regge il ruolo perfettamente. I costumi sono splendidi, in teoria ottocenteschi, ma segnati da un gusto un po' fantastico e senza tempo che astrae la contea di Metzengerstein dallo spazio-tempo. Splendide anche le musiche di Jean Prodromidès, tetre, ossessionanti, lugubri, una sorta di proto dark ambient. Vadim sa essere estremamente elegante, come al suo solito, nonostante le tematiche non siano affatto nelle sue corde. Mi ha ricordato un po' le atmosfere alla Corman/Price.
Intellettuale anche la cifra che Malle dà al suo William Wilson, aiutato grandemente dalla prova superba di Delon. Un episodio più concreto e compatto il suo, rispetto alla spiritualità di Vadim, ma carico di tensione. Wilson è davvero un uomo spregevole, tuttavia la carica magnetica che emana è di estremo fascino, ed in questo Delon dà un apporto decisivo e fondamentale. Ci sono meno virtuosisimi nella storia di Malle ma la partita a carte tra Delon e una corvina Bardot è grandiosa, fatta anche di lunghi silenzi (senza musica) dei quali Malle non ha alcun timore, anzi sembra evidenziarli il più a lungo possibile, sapendo che lo spettatore sta trattenendo il fiato assieme ai protagonisti fino all'asfissia.
Fellini dei tre è quello più pretenzioso e sborone, anche se questo suo approccio al film viene invece tradotto dalla critica come grande arte. Il Federico nazionale imbastisce il suo consueto circo visionario e totalmente scardinato dalla realtà; un sogno che è più un incubo, nel quale un Terence Stamp in grande spolvero, malaticcio e malsano, parla in inglese mentre il resto dei personaggi parla in italiano. Set, fondali, scenografie, luci son tutti posticci, volutamente artefatti, un continuo rimbalzare tra realismo (che non c'è) e metacinema. La musica di Nino Rota, per quanto pregevole, spezza un po' il velo di inquietudine che Vadim e Malle invece avevano mantenuto, riportando l'episodio di Fellini su una chiave più grottesca, surreale e romagnola. C'è un'ironia più sottile in Toby Dammit che naturalmente manca in Vadim e Malle, ma c'è anche qualche plagio spacciato per omaggio, come la bimba demoniaca con la sua palla bianca (ne sa qualcosa Mario Bava). Toby Dammit rimane comunque un passaggio interessante nella filmografia di Fellini poiché non tornerà più su accenti così marcatamente mortiferi e spettrali.
Tre Passi Nel Delirio è un film interessante, perché mette in evidenza come tre cineasti, dediti solitamente a ben altri registri, non si tirino indietro davanti alla sfida di proporre "altro", riuscendovi egregiamente, dove più, dove meno, e conservando grandiosamente lo spirito più vero delle pagine di Edgar Allan Poe, anche laddove - è il caso di Fellini - i fatti vengono abbastanza stravolti rispetto alle pagine originali. Oggi un'operazione del genere sarebbe impensabile (e non solo perché trovare tre autori come Vadim, Malle e Fellini è impresa ardua).