
Non ho un buon rapporto con i film di Paolo Genovese, quelli che ho visto sin qui mi hanno fatto venire l'orticaria, per la faciloneria, il qualunquismo, la ruffianeria e l'opportunismo dei temi trattati (come e perché). Mi riferisco ai due Immaturi, a E' Tutta Colpa Di Freud e a Perfetti Sconosciuti. Per di più The Place non è nemmeno interamente farina del suo sacco, ma trae spunto da una serie televisiva americana del 2010, The Booth At The End. Ciliegina sulla torta - si fa per dire - una locandina orrenda, tutta volta esclusivamente a strombazzare gli attori coinvolti. Le premesse per vedere l'ennesimo lavoro del regista romano che non avrei apprezzato c'erano tutte, eppure dopo 105 minuti ho deposto le armi e ho applaudito senza alcuna remora questa pellicola, l'ultima in ordine cronologico della sua filmografia. Adoro questo tipo di situazioni, reali ma al confine con l'assurdo, verosimili eppure paradossali e grottesche. Alla minima percezione di indefinitezza, gli autore nella maggior parte dei casi sentono l'insopprimibile necessità di spiegare, squadernare, esplicitare, potessero farebbero distribuire dei disegnini didattici all'entrata delle sale; Genovese intelligentemente si ferma diversi passi prima, lascia inevasa tutta l'ambiguità, il mistero necessari alla storia per decollare e acquisire potenza strada facendo. Una sospensione che pervade ogni fotogramma è si rivela assolutamente vincente. The Place non risolve, descrive; non spiega, lascia adito a interpretazioni personali. Non ci sono versioni ufficiali ma solo tante possibili. Che poi è lo stesso atteggiamento di fondo del compassato protagonista Marco (Valerio Mastrandrea), il cui talento è poter realizzare i desideri altrui, chiedendo qualcosa in cambio. Non di rado la contropartita è sofferta e dolorosa, ma si può sempre liberamente scegliere di non stringere alcun patto e rinunciare al proprio oggetto del desiderio. Tuttavia, la sola opportunità di poterlo ottenere spinge molti a degli estremi che non credevano possibili (come saggiamente osserva Marcella, interpretata da Giulia Lazzarini).
Mastrandrea sta seduto per 105 minuti al tavolo del bar/tavola calda The Place, (Il Posto di nome e di fatto, l'unico posto). Qui conduce le sue pubbliche relazioni, riceve persone ed annota ogni cosa sulla sua inseparabile agenda. Perché lo faccia, in che modo riesca a trasformare le speranze in realtà materiale (non siamo lontanissimi dalle suggestioni di Fantasilandia), non è dato sapere. Sappiamo che è un "tramite" (così si qualifica, o perlomeno lascia intendere), ma ogni altro quesito che lo riguarda è destinato a rimanere inevaso. Marco elude le domande, le lascia cadere nel vuoto, non precisa, non puntualizza, non spiega, prendere o lasciare; né insiste perché i suoi "clienti" vadano in una direzione o in un'altra, sono liberi di abbandonare i propri propositi in qualsiasi momento, soprattutto quando se ne sentono sovrastati. Sguardi e silenzi sono le sue armi. Foraggia mostri e concede opportunità, una fra le tante possibili per arrivare al proprio traguardo. Circostanziato Mastrandrea (che offre una prova di grandissima forza e rigore), il resto è sulle spalle del rimanente cast, un ensemble corale fatto di nomi di primo piano (dovendo comprensibilmente replicare le varie puntate della serie tv fatte di molti co-protagonisti). Ognuno secondo la propria sensibilità e fisicità svolge la propria parte in commedia, enucleando storie, frustrazioni e spaccati di vita che vanno sempre a segno, anche se quello della Lazzarini emerge come il personaggio più interessante, ricco e complesso, capace di dialoghi estremamente profondi nel suo ping pong con Mastrandrea. Bravissimo Genovese a dare peso specifico a quelle battute, sottolinearne la verticalità, la profondità, mantenendole però al contempo fresche, briose, fruibili senza velleità intelletualoidi. Le elucubrazioni dei personaggi invitano alla riflessione esistenziale senza mai per questo risultare supponenti o tronfie, Genovese insomma riesce brillantemente a far convivere intrattenimento e filosofia.
Tra i meriti di Genovese c'è anche quello di aver pensato a come evitare l'eccessiva staticità del film, fisiologica visto che non usciamo mai dal bar, non ci alziamo neppure dal tavolo di Mastrandrea, avviene tutto lì, in quei pochi centimetri quadrati, attraverso i racconti dei personaggi. E' così che "vediamo" accadere le cose, nessuna immagine, solo parole. L'avvicendarsi degli interlocutori di Marco quindi è scandito da tanti piccoli accorgimenti di ripresa atti a dare dinamismo e movimento alla scena; i diversi angoli e le diverse attività all'interno del bar, l'approssimarsi dei clienti sin dalla strada, l'alternarsi del giorno e la notte, del sole e della pioggia sulle vetrine, tutto ciò che concorre a dare respiro ai dialoghi sempre serrati tra gli attori. L'unica nota fuori posto a mio giudizio è forse Sabrina Ferilli, non per la Ferilli in sé, che per altro recita in modo solido e convincente, ma per la credibilità che la sua Angela dovrebbe avere nel corpo e nelle fattezze dell'attrice romana. Una donna sui 50, malinconica e disillusa, rassegnata ad una solitudine sentimentale e persino umana, a tal punto da non avere nessuno a cui poter raccontare il proprio Io e con il quale condividere il proprio vivere. Con un fisico così glamour, un volto così scolpito, dei capelli appena apparecchiati da un grande coiffeur, Angela in un qualsiasi bar italiano sarebbe ininterrottamente assediata da maschi urlanti ed infoiati; difficile credere a quell'aria mesta e sconsolata di chi non trova l'Amore con la A maiuscola. L'aspetto da pin-up della Ferilli fa un po' a cazzotti con l'indole e lo stato d'animo previsto in sceneggiatura per Angela, che proprio per quella sua condizione finisce con lo scoprire una inaspettata affinità ed empatia con Marco. La Ferilli ha mestiere ma a naso si sente un po' l'odore di miscasting.