Forse il film italiano "di denuncia" per eccellenza, la miglior esemplificazione del cinema di impegno civile. Certo, non l'unico esempio ma uno tra i più importanti e significativi se non il primo della lista. Dirige Francesco Rosi, uno abbonato a questo tipo di cinema e di impegno. Tuttavia confinare Le Mani Sulla Città a film etico e morale sarebbe riduttivo, è comunque cinema, impressionante da qualunque punto di vista si scelga di guardarlo. Si potrebbe parlare di neorealismo civile, o politico se preferite; la vicenda infatti è fruibile su due distinti piani, quello schiettamente politico, appunto, e quello artistico, ovvero contenuto e forma, e su entrambi i versanti Rosi vince con agio. Siamo a Napoli, anno di produzione 1963, in pieno boom edilizio, in deroga a piani regolatori (i famosi "lacci e lacciuoli" che ancora oggi si deprecano ad ogni pie' sospinto, come fossero inutili ostacoli al progresso, anziché regole a garanzia di tutti); il costruttore Edoardo Nottola (Rod Steiger), esponente di un partito di destra, si arricchisce speculando e costruendo complessi edilizi ,e pazienza se di tanto in tanto qualche sua vecchia costruzione viene giù per usura e abbandono, e se qualche disperato dei vicoli ci rimane sotto, sono effetti collaterali. In Comune viene istituita una commissione di indagine.per indagare sul crollo, ma le strategie, i compromessi e le convenienze politiche ne segnano il cammino. Da una parte la sinistra, incarnata dal consigliere De Vita (Carlo Fermariello) lotta contro i mulini a vento, dall'altra destra e centro si danno manforte per ottenere il prossimo sindaco della città.
Una delle cose più impressionanti del film sono le riprese (da elicottero immagino) dello skyline di Napoli, un groviglio di palazzoni e baracche, come se qualcuno li avesse estratti a sorte da un sacchetto e gettati a casaccio sul suolo partenopeo. Orrendi elefanti di cemento, anonimi, grigi e spersonalizzanti, che incombono su palazzi fatiscenti, prossimi allo sfarinamento, pericolanti, o peggio, su baracche da favelas del terzo mondo. Non un criterio, non una logica, nessuna geometria "umana", solo prepotente occupazione del territorio in ogni forma, ordine e grado, come si fa con le galline nel pollaio, stipate finché c'è posto. In questo paesaggio degradante non può spiccare per statura morale il corpo politico della città, responsabile dello stupro. La rappresentazione di Rosi è abbastanza manichea, è evidente che il regista sostenga con De Rosa, ma tutto sommato la spartizione delle responsabilità corrisponde fedelmente a ciò che è accaduto in particolare a Napoli e nel Merdione nel dopoguerra. Edoardo Nottola fa paura, non si ferma davanti a niente, è bava, spirito guerriero e soldi. Il suo appartenere alla politica è chiaramente un pretesto, una sorta di assicurazione per il suo lavoro, l'imprenditore palazzinaro senza scrupoli. In questo senso sono ancora più mostruosi i suoi colleghi di partito ed alleati, che se ne servono, lo sfruttano, lo strumentalizzano e, quando necessario, lo abbandonano pure al proprio destino.
Il momento più ributtante del film è quando il politico di maggioranza accoglie i familiari delle vittime del crollo e comincia a dispensare loro banconote, replicando la scenetta attribuita a Maria Antonietta d'Asburgo Lorena che intendeva dare le brioches al popolo affamato. Nel farlo viene pronunciata la frase: "vedi come si fa la democrazia?". Assistenzialismo becero, clientelismo, ricatto, bastone e carota, tutti i peggiori vizi della politica italiana sono riassunti e incorniciati paradigmaticamente in quel gesto vile e sprezzante. Non sono da meno i centristi, che vanno a cercarsi Nottola quando questi viene scaricato dai suoi, per arraffare quel prezioso pacchetto di voti (nonostante avessero finto di combatterlo fino ad un minuto prima), conquistare la maggioranza ed esprimere così il nuovo sindaco di Napoli. Il tutto sulla pelle dei cittadini, sia quelli benestanti e culturalmente "attrezzati" ma comunque immeritevoli di tanto opportunismo, sia gli straccioni indifesi condannati a rimaner tali dal disinteresse di chi li amministra. Il linguaggio aulico, nobile, è celebrato da Rosi con toni sempre pomposi messi in bocca ai politici nelle occasioni pubbliche, salvo poi togliere la maschera e parlare con una prosa assai più diretta e concreta nel segreto di quattro mura, al riparo dai giornalisti. La burocrazia difende se stessa, dando di sé la peggior immagine, farraginosa e rivolta esclusivamente all'insabbiamento, e non - come detto poc'anzi - all'esercizio di regole comuni e condivise che garantiscano tutti i cittadini, indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza.
Il tono descrittivo di Rosi è algido, freddo, teso e cronachistico al contempo. Non c'è enfasi retorica, il che rende la rappresentazione ancora più gelida e chirurgica. Siamo ad un passo dal documentario. Questo si rispecchia anche nel cast impiegato dal regista, che mischia attori veri e attori non professionisti. De Vita è Carlo Fermarello, vero esponente del Partito Comunista e sindacalista; il capogruppo socialista Antonio Caldoro è Renzo Farinelli, all'epoca capo redattore dell'Avanti!; i giornalisti accreditati alle udienze del Tribunale sono veri giornalisti e non comparse, taluni addirittura critici cinematografici. Le facce pasoliniane dei napoletani dei vicoli sono esattamente quelle dei napoletani dei vicoli, si vede, si sente epidermicamente. Il film, segnato da una splendida fotografia in bianco e nero, e da una colonna sonora (di Piero Piccioni) che non sfigurerebbe in un poliziesco, si conclude con una didascalia amarissima: "i personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce". Quando uscì in sala la pellicola ebbe diverse noie, soprattutto con la lobby dei costruttori, inviperiti per la descrizione criminale perpetrata da Rosi (una proiezione dibattito finì quasi in rissa), e di certo gli esponenti dei partiti di centro-destra non si sentirono particolarmente benvoluti.