Tra i più bei film di Luis Buñuel (abbonato ai bei film) nonché uno dei manifesti del surrealismo in 35 mm, L'Angelo Sterminatore è una pellicola potentissima che conserva inalterata la sua veemenza a distanza di oltre mezzo secolo dalla sua uscita nelle sale. Militante sotto la bandiera della guerra senza quartiere alla convenzioni, al conformismo, al moralismo, all'ortodossia, al perbenismo della media società (ed al franchismo che si preoccupò generosamente di censurare Buñuel), quella borghese, quella benestante, non così in alto da potersi sedere al vertice assoluto della piramide sociale ma sideralmente distante dalla gente comune, dai lavoratori con la sveglia alle 6, con le piaghe sulle mani, afflitti dalle paturnie del viver quotidiano, Buñuel prende anche qui a cannonate un manipolo di mezzi uomini e donne imbellettate, tutti imprigionati (senza alcun motivo spiegabile) presso la villa che li ha ospitati per una suntuosa cena. Dopo i primi convenevoli, le maniere affettate, le frasi di circostanza e le allusioni sferzanti (tipo quella alla "vichinga", cosiddetta per le sue maniere algide ed altezzose, e sempre per questo motivo etichettata come frigida e probabilmente vergine), i personaggi scoprono di non poter lasciare la casa, semplicemente non possono oltrepassare la soglia e vengono presi dal panico e dalla claustrofobia. Una permanenza coatta alla villa che dura giorni e giorni, mentre acqua e viveri scarseggiano fino a terminare. Bivaccano nel grande salone mentre intorno a loro c'è chi amoreggia, chi si dispera, chi si consuma e chi muore, in un degradante campionario di squallori e miserabilità. Misteriose pecore si riversano da una stanza all'altra, braccate da un gigantesco e minaccioso orso che gli ospiti definiscono l'angelo sterminatore (un'allegoria della loro medesima condizione). Pare che finché l'animale non lascerà la casa, nessuno potrà farlo.
L'assurdità ed il divertimento della situazione originano soprattutto dal fatto che non c'è alcun motivo per il quale le persone non possono liberamente oltrepassare il limite che, a conti fatti, si sono autoimposti. E tuttavia anche dall'esterno nessuno può accedere all'interno. Una sorta di paranoia collettiva che coinvolge tutti. Il finale poi è di una genialità altrettanto inventiva. - SPOILER: quando finalmente la faccenda sembra essersi risolta poiché, ricreando le condizioni iniziali, come fosse un sortilegio da spezzare, i personaggi evadono dalla villa, li ritroviamo a messa. L'orribile trascorso sembra essere definitivamente alle spalle eppure, terminata la funzione religiosa, fedeli, parroco e diaconi compresi non possono abbandonare la chiesa, nuovamente imprigionati da quattro mura, ancorché sacre e benedette. Per strada intanto scoppiano tumulti e delle pecore corrono via spaventate tra gli spari della Polizia.
L'ispirazione della sceneggiatura di José Bergamin pare derivasse direttamente dall'Apocalisse di Giovanni, trasfigurata naturalmente secondo la sottile e perfida ironia di Buñuel, maestro delle cornici oniriche nell'intavolare le proprie narrazioni. La condizione di paralisi fisica dei personaggi riflette quella ideologica e dunque psicologica. Reazionari, altezzosi, sprezzanti, financo ottusi, i nostri "eroi" sono talmente pigri mentalmente da non riuscire a cavare un ragno dal buco e si abbandonano a pantomime esoteriche, rituali massonici e formuline magiche nella speranza di rompere l'incantesimo che li opprime. Ridotti alle catene, questi borghesi altolocati non sono altro che animali che temono il bastone ed aspettano solo un pastore che sappia liberarli. La servitù li ha (provvidenzialmente) abbandonati per tempo, ed infatti ritroviamo camerieri e cuochi che se la ridono fuori dalla magione, mentre dentro i ricchi muoiono di stenti e paura. Notevole il ritmo che Buñuel riesce imprimere alla storia, nonostante il baricentro della rappresentazione ristretto ad una quasi unità di spazio, tempo e luogo.