
La Tigre Di Eschnapur fa parte di una storia concepita in due parti e che infatti proseguirà con Il Sepolcro Indiano, anch'esso uscito nel 1959. Il periodo è quello nel quale Fritz Lang torna in Germania dopo anni di esilio negli Stati Uniti. Il progetto è la realizzazione di un sogno coltivato da Lang per quasi 40 anni. Nel '21 aveva scritto questa favola avventurosa indiana ("Misteri d'India") con il contributo di Thea Von Harbou, che diverrò poi sua moglie un anno dopo. All'epoca il film fu però realizzato dall'austriaco Joe May (all'anagrafe Joseph Otto Mandel), e solo nel '57 Lang ricevette i fondi per produrre la propria versione della storia che egli stesso aveva ideato. Il titolo della prima parte, La Tigre Di Eschnapur, era riferito al Maragià, feroce e spietato come una tigre, ma a suo tempo May non lo aveva capito e si era concentrato su di una vera tigre presente nella storia, senza cogliere la metafora con il principe regnante indiano che assume la parte dell'antagonista del protagonista e della sua donna, una ballerina devota a Shiva. Lang mette la sua firma indelebile sull'India e sulle vicende dell'architetto tedesco Harald Berger (Paul Hubschmid), del Maragià Chandra (Walter Reyer) e di Seetha (Debra Paget), la quale viene salvata due volte dalle grinfie della tigre, una per ciascuno da parte degli uomini che se la contendono e che inevitabilmente finiranno schierati uno contro l'altro, in nome dell'amore di Seetha. C'è da capirli, la bellezza esotica della Paget era stratosferica e qualsiasi uomo, bianco caucasico o dalla pelle olivastra, avrebbe perso la testa. A proposito di epidermide, l'effetto "colorato" degli attori europei che impersonano personaggi indiani è piuttosto posticcio, così come è grossolana la tigre peluche scacciata col fuoco da Hubschmid; ma sono ingenuità che oggi perdoniamo volentieri perché il film è una meraviglia e lo si segue tutto d'un fiato fino al finale che non è un finale, poiché - come promettono le ruffiane scritte in sovraimpressione - il meglio verrà né Il Sepolcro Indiano.
Lang usa colori sgargianti e scenografie imponenti. La statua di Shiva è decisamente trasgressiva per il 1959 ed il ballo della Paget ai suoi piedi è forse il momento più iconico e suggestivo del film. Fantasmagorico il palazzo reale (Lang ottenne il permesso dal vero maragià del posto di girare in luoghi solitamente proibiti e ricorse anche al Lake Palace, il palazzo sulle acque visto poi anche in Octopussy - Operazione Piovra nel 1983), così come certosina è la cura dei vestiti, soprattutto quelli aristocratici. Il pubblico apprezzò enormemente la pellicola, che invece venne criticata negativamente dalla stampa al momento dell'uscita nei cinema (salvo poi conoscere una certa rivalutazione negli anni a seguire). Qualcuno parlò persino di cattivo gusto; c'è del kitsch nella messa in scena, ma fa parte della cornice esotica, ai limiti del fantastico, della vicenda. I personaggi sono quasi da fumetto, le psicologie sono elementari e tuttavia primitive, essenziali, la cifra della rappresentazione è in tutto e per tutto romantica, nel senso più letterario del termine. Tant'è che il film venne definito di un'astrazione quasi "disumana". E' indubbiamente la forma a prevalere sul contenuto, come spesso accade nelle storie d'avventura. Ci sono momenti che flirtano col miracolistico, si veda il numero del fachiro o l'illuminazione del volto di Shiva durante il ballo rituale. L'India con il suo Maragià rappresenta questo lato oscuro ed esoterico, mentre il razionale ingegnere tedesco (vagamente in odore di James Bond) è la realtà concreta e pragmatica, che in ultima analisi permetterà ai due amanti di fuggire dal palazzo per realizzare il proprio amore osteggiato. Mistero contro realtà, arcano contro scienza, India contro Europa. La servetta candida di Seetha è la nostra Luciana Paluzzi, la quale purtroppo non fa una bella fine ma permette a Lang, attraverso il proprio olocausto, di gettare uno sguardo torbido sulla crudeltà del potere assoluto del Maragià (il quale rimprovera l'ingegnere di aver sopravvalutato il garbo dovuto ai ranghi inferiori, come quello di una serva). Molto belle le immagini cucite da Lang e forse la sublimazione si raggiunge in uno specchio d'acqua che riflette le nuvole del cielo. Incredibilmente inquietante il soggiorno del protagonista nelle caverne sotterranee della città, dove arriva ad imbattersi in un carcere di lebbrosi, lasciati a marcire dal Maragià (per evitare il contagio con i sani) e vegliati da guardie cadaveri a loro volta. Una scena degna di un film zombie ante litteram.