Keoma

Keoma
Keoma

Da dieci anni inseguivano un seguito di Django, ma ancora nulla si era concretizzato. Luigi Montefiori viene contattato per scrivere una sceneggiatura che prosegua la storia del film del '66, o perlomeno che scaturisca da quel personaggio. Django però, per stessa ammissione di Montefiori, era difficilmente replicabile, non aveva passato, non si sapeva da dove provenisse, di lui esisteva solo il presente. Se da una parte questo avrebbe permesso di sbizzarrirsi in ogni direzione, dall'altra sarebbe stato un grosso rischio e avrebbe finito con lo snaturare il personaggio, tanto valeva pensare a qualcosa ex novo. E così fa Montefiori, adattando una sua idea, con radici profonde, addirittura nella sua infanzia. Pensa ai fumetti dell'Ussaro della Morte (letti sul periodico a fumetti Il Vittorioso, che non usciva in edicola bensì veniva distribuito solo nel circuito delle parrocchie e degli oratori), nei quali un cavaliere magiaro tornato dalla guerra viene perseguitato dalla Morte, alla quale non solo riesce a fuggire ma a cui sottrae nuove vittime, vivendo grandi avventure. Montefiori confeziona dapprima un trattamento poi una sceneggiatura, che viene però riadattata per il film da Mino Roli e Nico Ducci.

Nel frattempo Castellari e Franco Nero sono già sul set a girare (quello che si può girare senza una sceneggiatura), e quando finalmente ricevono il plico scoprono che c'è poco da esser soddisfatti. Lo sviluppo della vicenda, della brillante idea originale di Montefiori che tanto aveva appassionato e coinvolto il regista e l'attore, non convince per niente; questo costringe i due a riscrivere la sceneggiatura di pari passo con i ciak quotidiani. Ogni sera Castellari pianifica quello che avrebbe girato il giorno successivo, e soprattutto come lo avrebbe girato. Una buona via di fuga è ispirarsi ai grandi nomi che hanno fatto battere il cuore a Castellari. John Ford, Sam Peckinpah, Ingmar Bergman, Sergio Leone, Elia Kazan, Robert Aldrich. Sostanzialmente Castellari preleva delle idee altrui, delle atmosfere, degli spunti, e li metabolizza, li incamera nel proprio stile, li rende propri e li restituisce al film attraverso situazioni, inquadrature, personaggi, dialoghi (compreso l'omaggio al Marco Aurelio del "Giulio Cesare" di Shakespeare, il cui monologo si riflette in quello di Joshua Sinclair nel film, a proposito del giudizio del popolo pendente su Keoma). Ci sono il montaggio serrato ed i ralenty di Peckinpah, i primissimi piani di Leone, i colloqui metafisici con la morte di Bergman, etc.. Il resto degli ingredienti sono il talento e l'estro dei partecipanti al progetto, un carpe diem generale e collettivo che unisce tutta la troupe e tutto il cast nel miglior risultato possibile. A distanza di tempo Castellari riterrà Keoma il suo miglior film di sempre, quello che più lo rappresenta come autore.

Montefiori invece non rimarrà soddisfatto neppure della rielaborazione della sceneggiatura fatta da Castellari e Nero. La sua versione di Keoma era a suo dire più crudele, più truce, con una spiccata componente favolistica e con molta magia al suo interno. Era il tentativo di creare un western diverso da tutti gli altri, eterodosso e originale. Secondo Montefiori il risultato finale ridimensiona di molto l'estrosità del progetto iniziale, riportandolo a canoni più classici, meno "coraggiosi", pur ritenendo comunque Keoma un buon film, frutto del lavoro di un bravo regista. E' comprensibile la delusione di Montefiori, e d'altra parte non abbiamo la riprova di come sarebbe potuto essere il suo Keoma; una cosa però è certa, il film di Castellari è uno splendido esempio di spaghetti western crepuscolare, inquieto, esistenzialista e nient'affatto banale. Le allegorie non mancano, a cominciare dalla vecchia strega che incarna rugosamente la Morte e che cerca continuamente di demotivare Keoma. Se da un verso abbiamo la Mietitrice di anime, dall'altro abbiamo la Vita, incarnata del pancione di Olga Karlatos, villica incinta vessata dai cattivi e protetta solo da Keoma. Il mezzosangue indiano così è stretto tra le due polarità che definiscono l'esistenza degli uomini, e si dibatte tenacemente per non rimanerne stritolato. Il nome sioux del personaggio secondo Castellari venne desunto da un libro sugli indiani di quella tribù portato in dote da Woody Strode, ed il suo significato sarebbe "libertà". Nomen omen dunque. Non contento della portata di una battaglia addirittura tra la Vita e la Morte, Castellari mette nel film anche riferimenti cristologici, rendendo Keoma un novello evangelizzatore messianico (anche se dai modi decisamente più spiccioli). Non solo Keoma viene martirizzato e crocifisso come il Cristo (ad una ruota di una diligenza), ma suo padre non è il vero padre, i suoi fratelli ed i suoi concittadini lo guardano con scherno e con sospetto, la sua difesa va ai deboli, agli ultimi ed agli oppressi (le donne, i neri, i malati, i poveri). Sul suo aspetto lavorò molto Franco Nero, che lo volle con lunghi capelli, la fascia alla testa, e la barba lunga.

Nero aveva incontrato più volte il Cristo durante il suo percorso artistico. Dapprima fu Rossellini ad offrirgli quel ruolo per una serie televisiva (ruolo che l'attore rifiuto perché voleva fare cinema e non tv). Poi fu Pasolini a etichettarlo come perfetto Cristo della iconografia classica (anche se lui cercò un prototipo opposto, nero e piccoletto, per il suo Vangelo Secondo Matteo), quindi recitò la parte di un Cristo futuribile in Stridulum ('79) di Giulio Paradisi. Sempre di Nero fu il suggerimento di avvolgere il film in un costante manto di sabbia e polvere, soffiate da un vento incessante che oscurava il set, dando alla storia una patina ancora più disperata ed apocalittica. Il sapore di Keoma è proprio da ultimo mondo prima della dissoluzione, è la fine, il tramonto, l'eclissi, la disgregazione di ogni atomo in favore del caos, dell'anarchia, dell'entropia. E l'entropia ebbe luogo in Abruzzo, scenario magnifico nel quale furono ospitati i set della pellicola. Le musiche svolgono un ruolo importantissimo nell'economia del film, affidate ai fratelli De Angelis, un nome una garanzia. Leonard Cohen e Bob Dylan sono i punti di riferimento (commissionati da Castellari e Nero) sui quali costruire paesaggi sonori all'altezza di quelli visivi. E non c'è da rimanere delusi ascoltando la sinergia di suoni ed immagini di Keoma. La theme song è cantata da Sibyl Mostert e da Guido De Angelis. All'estero il film è uscito con molti titoli alternativi, compresi gli inevitabili riferimenti a Django, anche tenendo conto che una certa djanghizzazione di Keoma pur tuttavia sussiste.

Nel 1987 Django tornerà per davvero, in Colombia, per mano di Nello Rossati, nel tentativo (ciclico) di rivitalizzare il western all'italiana. Michele Lupo (California), Sergio Martino (Mannaja), Fulci (Sella D'Argento) e del resto lo stesso Castellari (Jonathan Degli Orsi) ci riproveranno tra i '70 e gli '80, senza contare le escursioni nel genere di Duccio Tessari con Tex E Il Signore Degli Abissi ('85), di Bruno Mattei con Scalps ('87), di Terence Hill con Lucky Luke ('91), e poi in coppia con Bud Spencer per le Botte Di Natale del '94, l'ultimo film di Enzo Barboni che nel '95 torna a rivolgersi addirittura a Trinità (Trinità & Bambino...E Adesso Tocca A Noi!), o robe parecchio parecchio sui generis come Il Mio West di Giovanni Veronesi ('98). In America con maggior costanza hanno continuato a produrre western, Eastwood ci ha vinto un Oscar e poi il marchio di re Mida-Tarantino è bastato da solo a risollevare le sorti di un intero genere divenuto improvvisamente molto trendy.

Trailer ufficiale

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