Il produttore Alexander Salkind contatta Orson Welles per proporgli di dirigere un adattamento di un grande romanzo, suggerendogli un elenco di 82 possibili testi dai quali pescare; Welles è da sempre interessato ad una rielaborazione de Il Processo di Kafka. Nel nome dell'autore boemo dunque il matrimonio "artistico" si compie e Welles si dona anima e corpo al film, come sempre quando un'idea lo coinvolgeva veramente. Nonostante siano implicati vari paesi e case produttrici (dalla Germania alla Francia, dall'Italia alla Jugoslavia), il budget del film è in realtà fuori dal range hollywoodiano, tant'è che Welles lo gira come un film indipendente, secondo la filosofia da sempre cara al nostro cinema di genere, fare tanto con poco, aguzzare l'ingegno ed inventarsi soluzioni alternative ma sempre enormemente creative. Artigianato insomma (un sostantivo che accostato al nome di Orson Welles fa un po' tremare le gambe). Questo tuttavia consente al regista di avere il controllo pressoché totale sul progetto, finendo col realizzare una pellicola che, al di là dei limiti finanziari, rispecchia abbastanza fedelmente l'autore che l'ha concepita. L'incontro di due geni come Kafka e Welles non può che incuriosire, a maggior ragione se ai due si associa un terzo enorme talento, quello di Anthony Perkins, scelto come protagonista, ovvero il signor Joseph K.
Testo letterario e sceneggiatura non procedono all'unisono, Welles riadatta dove vuole e indirizza in senso cinematografico ciò che ritiene sia più funzionale alla sua visione, ma è innegabile che la sostanza kafkiana ci sia tutta, anzi, amplificata ed elevata a potenza. In primis grazie alle scenografie eccelse di Jean Mandaroux ed alla fotografia (rigorosamente in bianco e nero) di Edmond Richard, degna del miglior cinema espressionista tedesco. Il senso di minaccia, di ossessione, di angoscia, di indeterminatezza e di inadeguatezza che si prova al cospetto delle architetture, dei pertugi, dei vuoti infiniti di spazio, delle zone d'ombra, la spersonalizzazione dell'io dei personaggi al cospetto di una realtà indifferente alla vita e all'animo umano, se non persino cinica e sadica, sono qualcosa di incredibilmente intenso e schiacciante. Noi siamo il signor Kappa, noi subiamo per empatia tutto il suo travaglio, noi siamo accusati ed arrestati senza avere la minima idea di cosa e del perché. Quale miglior volto, quale miglior gestualità corporea poteva accaparrarsi Welles se non quella di Perkins, l'inquietudine personificata, il panico incarnato, sfuggente, ambiguo, fragile, a cui Welles indica di vivere il film in chiave "black comedy". La sua interpretazione è clamorosamente a fuoco e tutto il film gli gira magnificamente attorno. Non è affatto facile Il Processo di Welles (come non lo è quello di Kafka), in un continuo andirivieni di significato e significante che si scambiano e si compenetrano, perdendosi e rigenerandosi l'uno nell'altro. Tuttavia i 120 minuti di pellicola sono una prova d'orchestra finissima e sottile che non lascia indifferente lo spettatore, diretta con un superbo uso della macchina da presa - ai limiti del virtuosismo - da parte di Welles.
Il regista riserva per sé il ruolo sgradevole dell'avvocato Hastler (ma lo fa di rincalzo poiché avrebbe voluto Jackie Gleason per quel ruolo), una ruota dell'ingranaggio che mira a dominare e manipolare il signor Kappa. Assieme a lui una nutrita platea di presenze femminili (la francese Jeanne Moreau, l'austriaca Romy Schneider, l'italiana Elsa Martinelli), tutte accomunate da un medesimo tratto, l'ineludibile scopo di sedurre Kappa, evidenziando in questo innanzitutto l'impossibilità per la figura femminile di essere altro se non materia di scambio, corpo, tentazione (un demone); dall'altra invece emancipandosi come unica valvola di sfogo di Kappa, unica parentesi di momentanea pace ed appagamento, in un disegno complessivo che ne vuole solo l'annichilimento. Le donne de Il Processo sono strumento o riscatto, peggiorano o alleviano la condizione di Kappa? Impossibile rispondere, così come è inestricabile l'allegoria illustrata che apre (e chiude) il film. Cosa rappresenta la Giustizia per l'uomo, quella con la G maiuscola, il dogma che si ha quasi paura di nominare? Alla sua uscita il film venne sia apprezzato che criticato, come era ovvio che fosse considerando l'estrema particolarità dell'opera. Welles lo ha sempre difeso, talvolta citandolo persino come il proprio miglior lavoro. Il Processo non è un film indolore, è una visione che ammorba e crea disagio (non di rado ai limiti del sopportabile, come nel caso dei poliziotti frustati o anche, banalmente, del dialogo di incriminazione di Kappa, quando viene svegliato nella camera del pensionato dove alloggia), esattamente come la lettura di un libro di Kafka, tanto appassionante quanto impietosamente abile nello squarciare il velo dell'esistenza umana, probabilmente priva di senso (e colma di dolore).