Per me Il Cattivo Poeta rimarrà per sempre il film con il quale sono tornato al cinema dopo ben 16 mesi di assenza dovuti al Covid 19. Sarà comunque un film indimenticabile perché marcherà un prima ed un dopo nella mia carriera di cinefilo (praticante in sala). Doverlo vedere in tv, magari in streaming (anche per cause di forza maggiore) mi avrebbe avvilito parecchio. Avevo già adocchiato il film prima dello sconquasso pandemico e mi è toccato aspettare un tempo considerevole prima di poterlo assaporare nella sua sede deputata. Tornare a sedersi su quelle poltroncine è stata un'emozione unica, pareva di essere Neil Armstrong nella notte dell'allunaggio, al contempo un piccolo ed un grande passo per le anime di tutti noi, fiaccati dalla pestilenza. Detta così, pare che praticamente qualsiasi cosa fosse stata proiettata sul grande schermo bianco l'avrei digerita senza colpo ferire (addirittura un film di Muccino, per dire....). Ma va dato a Gianluca Jodice (regista esordiente) quel che è di Jodice, ovvero il merito di aver diretto un signor film che certamente resterà tra i titoli più interessanti dell'anno. Molto accattivante anche la scelta di tirar fuori dai cassetti impolverati il Vate D'Annunzio, assai poco praticato al cinema. Mi viene in mente il film di Sergio Nasca del 1987 (col Gesù di Nazareth, Robert Powell, nei panni del poeta) e poco altro. Jodice inoltre, autore anche di soggetto e sceneggiatura, va dritto per dritto, non mettendo su un circo d'annunziano glamour e sornione, bensì scegliendo di focalizzarsi sull'ultimo biennio di vita di D'Annunzio, il crepuscolo della sua parabola artistica, politica e spirituale, che coincide con l'alba dello sciagurato sodalizio tra Mussolini e Hitler vituperato da D'Annunzio, il quale abilmente profetizza dove avrebbe portato quel patto di morte. La fine di D'Annunzio fa il pari così con la fine dell'Italia, che si immette sui binari del nazismo, delle leggi razziali, della seconda guerra mondiale, della vergogna dell'Olocausto e della sconfitta con disonore, poiché maturata attraverso un cambio di casacca in corsa. Un tragico cupio dissolvi senza via d'uscita.
D'Annunzio al Vittoriale degli Italiani è come Nosferatu chiuso nella sua magione sui Carpazi, allucinato e nauseato dalla non vita che lo circonda e oramai lo compenetra, in attesa che il suo destino si compia, rassegnato, mesto, sconfitto, impotente, consunto. Nonostante l'età - oramai settantenne conclamato - il sesso (o presunto tale) rimane la sua unica valvola di sfogo; la contemplazione della bellezza muliebre, insieme alla delicatezza e alla soavità del femminile come unici rimedi contro l'odore di rancido che assale progressivamente le sue narici, come i topi (immaginari) che egli ritiene stiano infestando la villa ed i suoi giardini. D'Annunzio è obnubilato dalla cocaina di cui fa un uso continuo, dall'autocommiserazione e dalla malinconia. Vede nel giovane "federalino" di Brescia Giovanni Comini (Francesco Patanè) un amico ed un confidente, un animo puro non ancora guastato del tutto dal Fascismo, o meglio, dalla sua declinazione più turpe e cupa, così come attuata da Mussolini e dalla sordide camice nere. Forse per lui Giovanni, ribattezzato "Gianni", è financo un figlio, sé stesso da giovane, colmo di ideali in potenza. Il poeta prova ad affidarglisi ma entrambi saranno destinati a soccombere sotto le pagine della Storia. Il peso della figura dannunziana sta tutto sulle spalle di un generoso Sergio Castellitto, disponibile a farsi carico di un ruolo affatto facile e di certo "antipatico" ancora ad una buona fetta degli intellettuali e della cultura italiana. Basti ricordare con quanta acredine D'Annunzio sia stato citato e denigrato innanzitutto dai suoi pari (dopo), o come lo stesso Duce lo avesse apostrofato ("un dente guasto: o lo si estirpa o lo si ricopre d'oro", frase citata anche nel film). Castellitto tuttavia trova quasi sempre il giusto equilibrio tra l'istrionismo dannunziano e la sua misura attoriale, tra l'appartenenza di D'Annunzio al proprio tempo ed il rifiuto del medesimo, un'ambiguità di fondo che poteva risultare pericolosissima se Jodice e Castellitto non l'avessero saputa domare e maneggiare, ma che i due disinnescano invece con grande acume ed intelligenza.
Ho scritto "quasi" perché è pur vero che in rari, rarissimi passaggi, Castellitto tende a strafare, ponendosi per un attimo al di sopra del personaggio. Pennellate rapidissime nelle quali il Vate diventa "quasi" Totò, o comunque una figura che pencola (troppo) sul precipizio del grottesco e del surreale. Ad esempio quando, dopo aver tentato inutilmente un approccio con Mussolini alla stazione ferroviaria di Porta Nuova a Verona, disarmato dal bagno di folla che bacia il Duce, D'Annunzio abbraccia un soldatino qualunque con fare paternalistico, tra il goffo, il buffo e lo sconsolato. Oppure la scena della caccia ai topi in giardino, molto teatrale e sopra le righe. Oppure ancora quando, a sberleffo, mette il proprio cappello militare in testa a Comini, mentre sono in macchina. Lampi fulminei, nei quali Castellitto gigioneggia un po' e D'Annunzio scivola per un istante nel pagliaccesco, pur al netto di tutta l'estrosità e la bizzarria che la vulgata attribuisce da sempre alla figura di Gabriele D'Annunzio, uomo imprevedibile, enigmatico e sibillino. Il Cattivo Poeta è un bel film, a cominciare dalla resa estetica. Jodice maneggia sapientemente le immagini, che si fanno ora slavate e algide nei colori (quando siamo a contatto con il Fascio, i suoi uomini e le sue architetture brutali, imponenti e minacciose), ora calde e inebrianti (tutti gli interni del Vittoriale), quasi a rimarcare il differente spessore umano, morale e culturale di quei due mondi paralleli sebbene, in fondo, inconciliabili. Appare più che ingenua la figura di Comini, ma del resto, trattandosi di un giovane uomo, perlopiù imbevuto di Lettere più che di armi e trincee, la sua evanescenza ed inadeguatezza non deve stupire poi troppo. Jodice si è servito di fonti storiche precise, dettagliate, puntuali, ed ha disseminato il film dell'humus e del verbo dannunziano desunto direttamente dalle sue opere.
Personalmente poi, essendo stato al Vittoriale, avendo letto qualcosa sull'impresa di Fiume, nonché qualcuna delle opere di D'Annunzio (studiato all'Università), devo dire di essermi gustato particolarmente sia il film, quanto l'accuratezza con la quale è stato realizzato, segno di grande rispetto e professionalità da parte del cast tecnico ed artistico coinvolti. Il Cattivo Poeta ha il pregio di servirsi di attori molto brillanti, fino al ruolo più periferico e collaterale, e di aver optato per una durata contenuta (appena 106 minuti), direi "normale", senza sbrodolare con inutili intellettualismi logorroici. In qualche maniera la pellicola riesce ad andare in profondità ma anche ad essere "situazionista", cogliendo atmosfere, umori, essenze e impressioni di un preciso momento, la fine o, come viene chiamato il capitolo conclusivo del film, "il buio", di D'Annunzio e dell'innocenza italiana, ammesso che mai ve ne sia stata una - candida e pura - della nazione. Non nascondo che le vibrazioni derivanti dalla visione de Il Cattivo Poeta portano in dote una certa inquietudine, soprattutto se comparate con l'oggi e con con l'attualità, gravida di istanze nazionaliste ed identitarie sempre più malmostose ed avvilenti.