Qualsiasi regista sognerebbe di chiudere la carriera con un film come Gran Torino. Come ama ripetere lo stesso Clint, lui annuncia continuamente il suo addio al cinema, ne è convinto, ma poi arriva sempre un nuovo progetto e infatti dopo Gran Torino sono arrivate altre pellicole. Si è parlato di testamento spirituale per un film che effettivamente si avvicina molto all'idea di lascito per i contemporanei ed i posteri, un insegnamento su cosa dovrebbe essere la convivenza tra esseri umani, la possibile direzione di un cammino problematico e mai facile, ma ineludibile se non si vuole rendere il pianeta e le coscienze di chi lo abita un immenso sterile deserto inaridito.
In Gran Torino Eastwood lambisce tematiche come il razzismo, l'integrazione razziale, il meltin' pot (il film è un crogiuolo di popoli, polacchi, italiani, vietnamiti, ispanici, neri), l'incontro/scontro tra vecchie generazioni e nuove generazioni. Ma in sottotraccia abbiamo anche la religione, con i suoi corollari di vendetta, redenzione e perdono, l'avidità, la cupidigia, l'egoismo (terribili i familiari di Kowalski/Eastwood), il rispetto delle tradizioni, il progresso (ed il regresso) della società. La grandezza del tocco di Clint sta nella immensa dignità e virilità con cui affronta il plot; in mano ad altri una storia del genere avrebbe grondato retorica, samaritanesimo, "buonsensismo" e patetismo; tra le callose mani di Eastwood invece tutto si risolve secondo la maniera degli uomini di una volta, poche parole, molti fatti, una moralità di fondo indistruttibile, austerità, saggezza, ironia. Il finale è assolutamente commovente ma in una maniera che non ti strappa le lacrime, bensì il cuore, dentro, in silenzio. E' stata la cosa giusta da fare.
Con Gran Torino Eastwood ha inteso rendere omaggio alla cultura Hmong, quei vietnamiti che al tempo del conflitto si schierarono con gli States, venendo quindi perseguitati in casa propria, e costretti alla fuga, anche verso gli USA. L'americano medio, magari un po' ignorante, intronato (e rintronato) sul suo Suv mastodontico, non distingue un vietnamita Hmong da un coreano, un cinese, o semplicemente un altro vietnamita non Hmong, e nutre una naturale diffidenza per gli occhi a mandorla, non senza aver inveito contro i negri, gli ebrei, i portoricani e altre decine di etnie ree di avergli tolto qualcosa di imprecisato. Così vive Kowalski (per paradosso, anch'egli immigrato o figlio di immigrati), che per vicini di casa ha una intera truppa Hmong. Il rapporto è teso e decisamente non amichevole, finché la forza degli eventi costringerà il polacco ruvido e scontroso ad avvicinarsi a quella gente, scoprirne i valori, la genuinità e l'intelligenza, ritrovandosi addirittura a difenderli nel momento del bisogno. Così come gli Hmong scopriranno che quel dannato burbero della porta accanto sarà capace di una generosità fuori dal comune.
Tutto vive nella progressione dei caratteri dei personaggi, troppo presto o troppo tardi avrebbe significato avvilire il film, ma Clint detta i tempi giusti, dialoghi sempre puntuali, così come i silenzi, gli sguardi e le espressioni. In questo è coadiuvato dalla sceneggiatura perfetta di Nick Schenk e dall'interpretazione degli attori, molti dei quali effettivamente Hmong, e soprattutto non attori. Eastwood avrebbe potuto appoggiarsi a rodati interpreti coreani o cinesi (sempre secondo il discorso che per un occidentale distinguerli è cosa ardua, a meno che non si abbia una certa dimestichezza con la cultura asiatica); invece, in nome di un'autenticità rigorosa, ha voluto veri esponenti del popolo vietnamita, cercandoli tra la comunità locale (il film è girato in Michigan). Tra questi ha trovato due degli interpreti principali, Bee Vang (Theo) e la deliziosa Ahney Her (Sue Lor), vera marcia in più del film. Il suo personaggio è di fatto il motore che fa succedere le cose, è grazie alla sua curiosità verso Kowalski che le due culture finalmente imparano a conoscersi, oltre all'evidenza che la Her è un'attrice ottima, pur non essendolo di professione. Il ruolo del prete invece è interpretato dall'irlandese Christopher Carley, viso interessante che ha solleticato Eastwood per la sua somiglianza a Spencer Tracy.
Un cenno alle musiche, intimiste e toccanti (salvo quando, per sottolineare usi e costumi dei giovani gangster, partono i rappettoni molesti), in particolar modo la splendida "Gran Torino" scritta e cantata anche dallo stesso Eastwood, che ascoltiamo sui titoli di coda mentre un bellissimo campo lungo ci mostra le auto che sfrecciano lungo l'Oceano. Gran Torino, pur essendo un film del 2008, attualissimo soprattutto per le tematiche trattate e l'America messa in scena, appartiene di diritto al grande cinema americano di qualche decennio fa, quello dei John Ford, dei John Wayne e dei Don Siegel, quella roba "vecchia" che però non tramonta mai e dispensa lezioni di vita eternamente valide.