Gorky Park

Gorky Park
Gorky Park

In principio fu il romanzo di Martin Cruz Smith (1981), dal quale venne tratto il film diretto da Michael Apted, ed il cui soggetto fa riferimento sempre a Smith, ma la sceneggiatura è di Dennis Potter. Appena due anni separano le pagine dello statunitense dal film dell'inglese, dunque cotto e mangiato, ed in anni affatto facili per parlare di Russia. Gorky Park è una pellicola gelida, lenta, scostante, a tratti respingente. Immagino che Apted l'abbia appositamente voluta così. Non c'è nulla che trasmetta empatia, inclusione, attrazione, quanto piuttosto il contrario, è come se l'ispettore Arkadij Renko (William Hurt) ci intimasse di stare fuori da quella storiaccia, dato che non ne ricaveremmo che dispiaceri, minacce e forse pure una ferita mortale in mezzo al petto. Il clima è rigido, le architetture sono spoglie e severe, lo sguardo dei personaggi è vuoto e privo di emozioni, tutto è militarizzato e la vita non vale poi granché, si può morire in ogni momento, ad ogni angolo di strada senza che nessuno versi delle lacrime per quella perdita. Naturalmente, per contrappasso, questa ambientazione diventa assai magnetica e stimolante per lo spettatore, il quale tuttavia respira ad ogni fotogramma la "gravità" del contesto socio-culturale che ospita le indagini condotte da Renko. Indagini tortuose e tormentate, anche perché costantemente "contaminate" dalla contiguità con gli uomini del KGB. Tre morti al Gorky Park, tre facce sfigurate, letteralmente scarnificate a colpi di lama, per rendere impossibile risalire alle identità delle vittime. Un'otturazione dentale però tradisce la provenienza di uno di loro, è un americano. E poi c'è la questione dei pattini da ghiaccio usati dalla ragazza, di proprietà di una donna che ne aveva denunciato la scomparsa e che pare coinvolta in qualche modo nel caso.

Dal momento in cui Renko cerca di mettere assieme tutti i pezzi del mosaico la faccenda prende una piega inquietante e oscura. La sensazione di essere ostacolato in modo occulto è pressante, e progressivamente le ombre si dissipano lasciando la minaccia esplicita e affatto occulta. William Hurt era probabilmente la faccia più idonea a rivestire i panni dell'ispettore, la sua consonanza con la sfera emotiva di Renko è simbiotica. Hurt è uno capace di non fare nulla, non muovere neppure un sopracciglio, e al contempo scatenare un'intensità violenta e viscerale. Uno sguardo, un leggero digrignare la mascella, una ciocca di capelli che frana lungo la fronte, e pare che il suo personaggio stia per sconvolgere ogni equilibrio. Intorno a lui tutto è molto controllato, congelato, sotto rigida misura, un'oppressione che naturalmente trasfigura per allegoria il regime sovietico agli sgoccioli della guerra fredda (che viene elevata a potenza dalle musiche di James Horner). Eccellente la fotografia (molto livida) di Ralf. D Bode, tedesco naturalizzato americano, e quindi forse con qualche retaggio europeo che si rivela assai funzionale. Tuttavia, come è logico immaginare, l'Unione Sovietica non concesse affatto il permesso di girare un film (con nel quale il KGB viene ritratto in quel modo poi) in patria, e così Apted ricorse alla vicina Helsinki, trasformandola in Mosca e simulando il Gorky Park attraverso il Kaisaniemi Park. Impressionante la familiarità dei luoghi, dovuta alla perdurante sfera di influenza subita dalla Finlandia da parte dell'Urss. Apted non cade nella tentazione di dipingere l'Occidente contro l'Oriente con toni trionfalistici del primo rispetto al secondo, poiché il capitalista americano interpretato da Lee Marvin non appare certo migliore dei suoi interlocutori russi, anzi, proprio in quanto somiglianti si "pigliano", verrebbe da dire.

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