È Stata La Mano Di Dio

È Stata La Mano Di Dio
È Stata La Mano Di Dio

Come ogni nuovo film di Paolo Sorrentino, un premio Oscar, il "nuovo Fellini", anche È Stata La Mano Di Dio si è rivelato un evento sin dal giorno del suo concepimento, quando i legali di Maradona stavano vagliando l'eventualità di portare in tribunale Netflix (partner di Sorrentino per questa produzione) perché il titolo del film evocava chiaramente il quarto di finale di Messico 1986 durante il quale il pibe de oro castigò Albione con un gol di mano, anche se - come Netflix si affrettò a precisare - il film non riguardava direttamente Maradona ma citava l'episodio come elemento interno alla trama, ed a suo modo simbolico. Come sempre Toni Servillo è al fianco di Sorrentino (e con lui altri volti storici del cinema partenopeo come Renato Carpentieri e Enzo Decaro); qui è addirittura suo padre, visto che la storia di Fabietto Schisa (Filippo Scotti) è parzialmente ispirata alla stessa biografia del regista. Proprio per questo Sorrentino ha parlato del suo film più personale, mettendo un po' sull'avviso quella critica che lo accusa di non aver mai granché da dire in profondità se non il parlar per immagini. Ecco, stavolta Sorrentino ha sottolineato quanto ritenere il suo film freddo, algido o impersonale non possa essere un'opzione. Io ho sempre qualche timore nei confronti di una sua pellicola perché, pur riconoscendone ed apprezzandone il talento, la creatività, il coraggio, la visionarietà, mi ritrovo in quella fetta di spettatori che ritengono il suo cinema peccare effettivamente di freddezza ed autocompiacimento. L'onnipresente evocazione dello spettro felliniano inoltre sembra una tassa, un dogma dal quale proprio non si può prescindere, un'etichetta che ogni volta viene data in pasto al pubblico e che deve bastare a renderlo sazio.

È Stata La Mano Di Dio però è un film che in parte mi riconcilia con Sorrentino, non dico di essere tornato all'appagamento incondizionato di Le Conseguenze Dell'Amore, ma perlomeno siamo oltre l'ubriacatura de La Grande Bellezza, di Youth e di Loro, opere con molti meriti ma anche tronfie e vanitose, la cui sostanza ed il cui peso specifico fatico ancora a mettere a fuoco del tutto. Stavolta Sorrentino dà la sensazione di sentire appieno ciò che filma, complice un racconto più intimo e dal taglio autobiografico; un ossimoro, immagino lo sentisse pure prima, ma ora se ne accorge anche lo spettatore. Il risultato è qualcosa di estremamente "vivo", pulsante, permeato di batticuore genuino. Si riesce finalmente a creare un'empatia tra chi guarda e chi racconta, aspetto che a mio modesto parere Sorrentino tende a sottovalutare, preso com'è dalla sfavillante messa in scena di ogni cosa. Ovviamente la mano è sempre la stessa, quindi abbiamo momenti tipicamente "sorrentiniani" come la scena del lampadario con la Ranieri e Decaro; il lungo piano sequenza iniziale che accarezza il golfo partenopeo, bello da vedere quanto si vuole ma fine a se stesso; gli interni del casolare di campagna descritti con uno stile decorativo da vecchio ed ampolloso cinema d'antan; il bizzarro set di Antonio Capuano (Ciro Capano) col tizio appeso a testa in giù; il vezzo di tratteggiare Fabietto sempre con walkman e cuffie perennemente addosso, quasi fossero un'uniforme; il sapore fortemente caricaturale di alcuni personaggi, come ad esempio la baronessa (Betty Pedrazzi) o l'allucinato Renato Carpentieri; il dialogo finale volutamente criptico tra Fabietto e Capuano, etc. Ci sono insomma le classiche pennellate "alla Sorrentino", la sua cifra (del resto non potrebbe essere altrimenti), che per la mia sensibilità si colloca sempre a metà strada tra l'enigmatica grandeur ed il grottesco tendente al ridicolo, una sovrabbondanza di enfasi, un manierismo autocompiaciuto.

C'è però anche dell'altro, c'è sostanza, come detto; i personaggi sono palpabili, materiali, tridimensionali, magari non tutti ma almeno i più importanti. Filippo Scotti dall'alto dei suoi 18 anni fa un lavoro eccellente, tanto da aver vinto il premio Marcello Mastroianni a Venezia; Servillo è un attore indiscutibile e molto emozionanti sono anche le prove di Teresa Saponangelo (nel film, la madre di Fabietto) e Luisa Ranieri (la zia). I loro due personaggi sono complementari, donne fragili e atterrate dalla vita, ma al contempo scrigni di energia pura, linfa e nutrimento per chiunque le circondi. Molte madri di famiglia possono rispecchiarsi nella storia di Maria, obbligata ad avere la forza di andare avanti nonostante le ferite. La scena del suo pianto di rabbia, che Fabietto assume su di sé, è di una potenza e di una verità enormi, forse il momento più forte e crudele del film. Parimenti ma su un fronte diverso, la Ranieri è impegnata in un ruolo altrettanto oneroso; carne e spirito, o meglio, carnalità e spiritualità. Una duplicità sottile e complessa che infatti paga a caro prezzo. Quando la Ranieri entra in scena è un'epifania topica, la sua prorompente silhouette oggettivamente disintegra lo schermo ma non è ancora niente, ciò che accade sulla barca temo rimarrà una scena indelebile del cinema italiano per parecchi decenni a venire, per fortuna o malgrado le intenzioni della Ranieri. Sono quei momenti "magici" inconsapevoli, come lo strip della Loren al cospetto di Mastroianni in Ieri, Oggi E Domani.

Sorrentino descrive Napoli, quella della sua adolescenza e dell'immediata post adolescenza, la omaggia nel finale con la celebre canzone che Pino Daniele le ha dedicato ("Napule è"), la attraversa in ogni suo aspetto diurno e notturno, elegante ma anche popolare (e criminale), si sposta a Capri, sullo Stromboli e in mare aperto, cita San Gennaro (in versione molto glamour) e ovviamente la squadra di calcio che è altrettanto una religione nei vicoli e nelle case partenopee. C'è Roccaraso, dove tanti napoletani trascorrono le ferie (di montagna), c'è l'ospedale psichiatrico, c'è il teatro e c'è la visione ottundente del golfo e del mare nel quale Capuano si getta all'alba come a lavarsi catarticamente di ogni fardello esistenziale, per temprarsi ed affrontare un nuovo giorno di fatica sulla Terra. Ogni fotogramma è intriso di simbolismo ed allegoria, o perlomeno questo è il dubbio che Sorrentino instilla nello spettatore, oramai alimentando il culto di se stesso e del suo continuo gioco di sponda felliniano. "La realtà è scadente" diceva Fellini e ci ripete Sorrentino per bocca dei suoi personaggi, il cinema è un'altra realtà molto più interessante e convincente che diventa mezzo e scopo esistenziale per non cedere all'oblio (come invece accade a Luisa Ranieri).

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