Dante

Dante
Dante

Non ha fatto mistero Pupi Avati di considerare questo suo omaggio a Dante il film della propria vita, un'opera che aveva in mente di realizzare da decenni e che per varie traversie non era ancora riuscito a mettere in piedi. Nelle varie interviste che mi è capitato di sentire ho colto una trepidazione quasi fanciullesca di Avati, un'eccitazione irrefrenabile come accade ai bambini quando sono al cospetto di gioia e desiderio puri che nessun filtro razionale o buona norma di comportamento sociale possono (ancora) arginare e manomettere. Che il pubblico condivida o meno questo stato d'animo, Dante è il film dal quale Avati si sente più rappresentato e che considera probabilmente il degno epilogo della sua carriera (che naturalmente mi auguro prosegua oltre ed a lungo). Va però compreso il peso che il regista bolognese assegna a questa pellicola per comprenderla al meglio prima, durante e dopo la sua visione. A suo modo dunque questo Dante va oltre i 94 minuti di durata. Per altro, scelta apprezzabilissima quella di limitarsi ad una lunghezza canonica anziché trascinarsi per chissà quanto, come oramai accade per qualsiasi film (a cominciare dalla Marvel, figuriamoci Dante Alighieri...); Avati invece ha il dono e l'intelligenza di comprendere che non occorre sequestrare le persone in sala per illuminarne cervello e spirito, basta dire le cose giuste, nel modo giusto e con i tempi giusti.

La storia si basa sul Trattatello In Laude Di Dante scritto da Boccaccio (da qualche parte tra il 1351 e il 1365, e del quale abbiamo tre redazioni tutte per mano di Boccaccio stesso). Avati ne trae lo spunto per mettere in immagini il viaggio che Boccaccio (Sergio Castellitto) compie sui luoghi danteschi (dalla sua casa fiorentina alle tappe dell'esilio) fino al raggiungimento del monastero di Santo Stefano degli Ulivi a Ravenna, dove dimora suor Beatrice, figlia di Dante; a lei Boccaccio dovrà dare i simbolici dieci fiorini che i Capitani di Or San Michele le hanno destinato come risarcimento per le pene subite da Dante a seguito del suo bando dalla città. Il viaggio diventa dunque un viaggio che è al contempo nostalgico, storico, letterario, celebrativo, spirituale e per Boccaccio persino mistico, poiché il suo affidamento a Dante è totale ed incondizionato, arrivando a definirlo un padre, tanto quanto lo è stato biologicamente per suor Beatrice. Avati sfodera innanzitutto il suo tocco inconfondibile per il Medioevo, già assaporato in passato in opere come Magnificat e I Cavalieri Che Fecero L'Impresa. Una grande opera di ricostruzione di usi, costumi e scenografie che in modo sinergico restituiscono allo spettatore esattamente l'atmosfera di quei secoli (affatto bui), come se fossimo davvero lì in quel momento, l'odore ancora vivo della peste e dei morti (come dice lo stesso Boccaccio). Nei titoli di testa l'elenco dei consulenti storici è ricco e corposo, e abbiamo poi modo di toccare con mano quel lavorio di adeguamento filologico; su questo Avati ha davvero una marcia in più, il suo Medioevo è reale, quotidiano, non un mondo fantasy come spesso invece accade di vedere, nonostante anche qui si assista a passaggi persino ai limiti dell'horror (fatti di sangue, carni deturpate e riprese in grandangolo). Avati non si perita neppure di mostrarci i personaggi mentre espletano funzioni corporali, mangiano, si accoppiano, vivono insomma la vita, esattamente come ognuno di noi fa nel XXI secolo, siamo fuori dal mito, nella realtà concreta. Anche per questo Dante, Beatrice, Boccaccio diventano nostri prossimi, la loro grandezza rimane ma, accanto ad essa, trasuda la loro umanità.

Alessandro Sperduti è un Dante molto credibile (forse solo una leggera esagerazione con la protesi al naso), che lo spettatore vede perlopiù ragazzo - perché così lo immagina eternamente Boccaccio - spesso investito da emozioni talmente veementi da non riuscire a trattenere la commozione (come quando ascolta la storia di Paolo e Francesca, quando deve votare per l'esilio di Cavalcanti, quando immagina che la Commedia lo potrà far tornare a Firenze o quando nottetempo ricorda il suo incontro con Beatrice). Per quanto fulminei, i suoi scambi con Beatrice Portinari sono al contempo colmi di potenza e delicatezza, ma sono davvero un'infinità i momenti nei quali Avati colpisce al cuore (e allo stomaco) lo spettatore, penso all'anziana Gemma Donati (interpretata da Erica Blanc... che piacere rivederla!) che invoca la sua famiglia davanti alle mura di casa, alla visita di Boccaccio nei sotterranei della torre dove venivano accatastati i morti senza nome della peste nera, alla ricerca di suo padre, al commiato tra Dante e Guido Cavalcanti, al suo matrimonio con Gemma, al suo capezzale, eccetera. Tanti piccoli frammenti di una intensità pazzesca. Castellitto porta a definitivo compimento tutte queste emozioni quando finalmente incontra la figlia di Dante (Valeria D'Obici) e non può in alcun modo arrestare quella che è la più grande emozione della sua vita, un contatto "diretto", epidermico, con Dante, una gioia incontenibile che si trasforma in lacrime e che diventa "bastevole del tutto". Avati, con un colpo da regista magistrale, chiude il film lì, senza ulteriori sbrodoli, dando prova di un rigore e di un'asciuttezza che mancano al 90% dei registi in circolazione. Deliziosa la sfilata delle tante apparizioni di personaggi noti al mondo del cinema e dello spettacolo, dalla suddetta Blanc (eroina del nostro cinema di genere di qualche decennio fa) al livoroso frate interpretato da Alessandro Haber, da Mariano Rigilio (indimenticabile protagonista dello sceneggiato Rai Dov'è Anna?) a Leopoldo Mastelloni, addirittura fatto Papa. Un vero coup de théâtre poiché il più nero dei pontefici, Bonifacio VIII, viene assegnato ad un attore che certamente la Chiesa avrebbe visto come il più "inadeguato" ad interpretare il vicario di Cristo sulla Terra (ma c'è anche Platinette, al secolo Mauro Coruzzi, nelle panni di un frate che non fa affatto una bella fine). E poi Gianni Cavina (nel frattempo scomparso, questo è letteralmente il suo ultimo film), Enrico Beruschi, Milena Vukotic, Enrico Lo Verso, e la D'Obici, anche lei talentuosa e coraggiosa attrice che ha attraversato il nostro cinema tra i '70 e gli '80.

Particolare la scelta di Beatrice (Carlotta Gamba), bellezza enigmatica e pervasa di una luce quasi ultraterrena. Molto graziosa pure Gemma Donati interpretata da Ludovica Pedetta, la sua parabola all'interno del matrimonio con Dante (che non la amerà mai per davvero) è a suo modo emozionante. Da soldato Dante conosce anche delle prostitute assieme a Guido (Romano Reggiani), delle povere figlio di un tizio che si arricchisce con l'oro che i soldati depredano in battaglia, e giace con una mugnaia, interpretata da Morena Gentile, presso la quale nella zona di Verona trova ospitalità durante l'esilio (unica eccezione al realismo avatiano, poiché quando la donna si spoglia sembra di intravedere un seno decisamente troppo "scolpito" per essere quello di una donna del '300 che lavora la terra). Belle le musiche di Lucio Gregoretti e Rocco De Rosa, anche se a tratti leggermente troppo affettate e sentimentali, e molto interessante anche lo squarcio onirico che di tanto in tanto Avati apre nella cronaca storiografica (si veda il sogno di Beatrice che mangia il cuore e che ispirerà un sonetto a Dante o il brillare delle lucciole - che simboleggiano le stelle di cui Dante conosceva il vero nome - durante il colloquio tra Boccaccio e suor Beatrice). Il personaggio del poeta non viene immortalato acriticamente come un eroe senza macchia, un essere umano privo di fragilità e cadute, dalle qualità esclusivamente positive, non è un monumento poetico vivente insomma bensì un ragazzo divorato dall'amore per una donna (idealizzata), per la poesia, e devastato dallo scorno fiorentino, che compie anche scelte sbagliate ma la cui capacità di empatizzare con il prossimo non è mai in discussione.

Visivamente Dante è un film notevole, appagante, di grande garbo ed eleganza; una storia d'amore che fonda la nostra letteratura, regalataci senza che lo spettatore provi alcuna pesantezza durante la visione, anzi, tutto scorre in modo fresco, genuino, rinfrancante. Avati riesce a metterci dentro citazioni liriche, architetture e scenari mozzafiato, una carica spirituale che non può lasciare indifferenti. Il film è dedicato ai dantisti, tra i quali qualcuno avrà storto il naso per quel certo dettaglio, quel certo particolare (culturale e letterario più che storiografico) che non sarà stato rispettato alla lettera, dimenticando forse che la pellicola di Avati non può diventare l'ennesimo capitolo della esegesi e della filologia dantesca, ma va considerato innanzitutto come un'opera d'arte del regista, dunque dotata di una propria autonomia, fisionomia e dignità, nonché un tributo di Avati al poeta che egli ama di più e con il quale ha inteso instaurare una fratellanza affettiva che prescinde dal pedissequo rispetto della metrica, identificandosi in questo in tutto e per tutto con Boccaccio, che diventa quasi il suo alter ego, la proiezione di sé all'interno del film. Le parole che Castellitto pronuncia in presenza di Valeria D'Obici sembrano quelle che avrebbe pronunciato Avati stesso, c'è da giurarci.

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