
Dal 2006 Kenneth Branagh non tornava dietro la macchina da presa per onorare il suo mentore, il bardo di Stratford-Upon-Avon, lo fa in grande stile, non adattando l'ennesima opera di Shakespeare ma diventando Shakespeare in carne e ossa, dopo il 1613, ovvero dopo l'incendio che distrusse per sempre il Globe Theatre durante una rappresentazione dell'Enrico VIII. Sulla soglia dei 50 anni William torna a casa, dove per anni aveva messo piede poco e saltuariamente. Lo attendono la moglie Anne Hathaway (Judy Dench) e le figlie Susanna (Lydia Wilson) e Judith (Kathryn Wilder). La situazione non è semplice, i rapporti sono freddi, allentati dalla lontananza e dal trascorrere del tempo; Anne è quasi un'estranea, Susanna è sposata con un puritano e vive un'esistenza rigorosa e piena di divieti e rinunce, Judith pare affetta da una forte depressione e si è autoconfinata in casa. Su tutti grava la perdita del piccolo Hamnet, portato via dalla peste a 11 anni mentre William era in giro a celebrare i suoi successi teatrali. Il ritorno a casa obbligherà il bardo a fare i conti con i cocci di una vita da riesaminare e ricostruire, per quanto possibile. Branagh si incarica di miniare la vita quotidiana del più grande drammaturgo della storia, appoggiandosi in parte a ciò che sappiamo e che ci è stato tramandato dalla storiografia documentale, in parte lavorando di fantasia, ancorché attenta alla filologia del personaggio, che certamente Branagh conosce e maneggia come pochi altri cineasti, anzi probabilmente come nessuno (siamo ai livello di uno storico della letteratura).
Il trucco è perfetto, si fa persino fatica a riconoscere Branagh sulle prima. Personalmente non sapevo che oltre ad aver scritto e diretto il film lo avesse anche interpretato, ed infatti l'ho capito dopo un po' da alcune movenze e dagli sguardi, ma il make-up è davvero impressionante. Questo è un grande pregio dell'attore e regista irlandese, il team con il quale si accompagna e grazie al quale ha creato opere visive come l'Enrico V, Molto Rumore Per Nulla o Hamlet, solo per citarne alcuni. Le immagini paesaggistiche dell'Inghilterra seicentesca, le campagne, la vegetazione, le albe ed i tramonti di Albione che Branagh ricrea in questa pellicola sono abbacinanti. Siamo ai livelli del Barry Lyndon di Kubrick. E lo siamo anche per altre ragioni. Branagh ricorre alla luce naturale, l'uso che fa delle candele in interni è qualcosa di letteralmente mai visto prima, pura magia. Insieme ai costumi, alle scenografie ed all'uso della macchina da presa si ha l'impressione di vivere dentro grandi quadri del XVII° secolo, di spostarsi continuamente da una raffigurazione pittorica all'altra, di popolare le tele dei grandi maestri del periodo, esattamente come accadeva per il film "napoleonico" di Kubrick. Anche limitandosi al comparto tecnico, Casa Shakespeare è un film assolutamente da vedere, ed è un enorme peccato non averlo potuto ammirare in sala, su grande schermo. Naturalmente non si esaurisce tutto qui, altrimenti non staremmo parlando di quel geniaccio che è Branagh, un uomo che ho profondamente amato sin dal suo esordio con Enrico V, anche se poi strada facendo si è spesso guastato con partecipazioni e comparsate in titoli hollywoodiani non esattamente memorabili. Il film gioca quasi a livello metacinematografico con elementi, simbolismi e rimandi shakespeariani, fuori e dentro la vita di Shakespeare.
- SPOILER: Il figlio Hamnet, il cui nome è una traslitterazione di Hamlet, il cui celebre motto risuona in tutto il mondo alle parole "essere o non essere", ed esattamente quella dicotomia è la condizione di Hamnet, presenza che William continua ad avvertire anche dopo la morte e che sembra assistere e guidare il poeta. I due hanno un colloquio in riva ad uno specchio d'acqua, dove Hamnet è annegato (scopriremo che non è stata la peste a portarselo via) e dove - come una novella Ofelia - si congeda dal padre poiché "siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo è raccolta la nostra breve vita, motivo per il quale lo spirito di Hamnet non può trattenersi oltre al cospetto del padre. La figlia Susanna è una scrittrice ed una poetessa, la vera penna soggiacente alle composizioni che da sempre William aveva attribuito al geniale figlioletto maschio (gemello di Susanna). In questo ritroviamo una delle possibili (e strampalate) teorie sulla vera identità e natura dei Shakespeare, ovvero che fosse una donna e che comunque dietro quel nome e quel cognome si celasse in realtà un'altra identità (storicamente si sono fatte tante ipotesi, tra le quali anche Francis Bacon, Christoper Marlowe ed Elisabetta I). C'è poi un rapido cenno ad un cervo di un nobiluomo che Shakespeare avrebbe abbattuto per sbaglio (evento forse storicamente accaduto per davvero e che avrebbe causato la sparizione del bardo per qualche anno), eccetera eccetera.
Branagh si diverte a citare ed infarcire la sua storia con ami ed appigli, alcuni verosimili, altri, solidi e concreti, altri del tutto immaginati. Il padre di William era un ladro per davvero? Probabilmente no, cadde in disgrazia in età matura ma non fino a quel punto. Shakespeare ha avuto amori omosessuali, come quello suggerito nei confronti del Conte di Southampton (Ian McKellen)? Non ha alcuna importanza, sono ben più interessanti le ragioni che spiegano il genio di Shakespeare, come abbia fatto a scrivere tutto ciò che ha scritto, ad idearlo ed a padroneggiare ogni cartina geografica ed ogni psicologia umana senza quasi essersi mai mosso da Londra. Gli viene chiesto conto di ciò da un suo concittadino e Shakespeare spiega che ha trovato ogni cosa dentro di sé. Che ogni sua parola o creazione è partita dalla sua natura, dalla sua indole, dalla sua verità e dal riconoscimento di essa senza paure o infingimenti. Solo dando se stessi a chi ci legge si può trasmettere un senso di verità autentica. Ecco il perché del titolo originale del film - All Is True - per altro anche possibile titolo alternativo dell'Enrico VIII, disintegrato dalla nostra distribuzione che trasforma una tale sublime poetica in una parodia di Casa Vianello, roba da galera.
Branagh è l'unico capace di trasportare un personaggio monumentale, epico, quasi mitico, come Shakespeare stesso su di un piano di realtà quotidiana, spicciola, ordinaria e non ridicolizzarne la statura. Capita spesso che alcuni registi commettano questo errore; mi viene in mente Rapa Nui, il film di Kevin Reynolds nel 1994, nel quale nonostante l'ambientazione esotica, le coordinate geografiche e l'epoca storica, la sceneggiatura poteva essere trasposta in un liceo americano di oggi e fondamentalmente non ci sarebbero stati grossi contraccolpi. Questo per l'incapacità di radicarsi nella storia (nel suo spazio e nel suo tempo) che viene narrata ma universalizzando (ovvero banalizzando, uniformando, livellando) - magari inconsapevolmente - eventi, personaggi, dinamiche comportamentali. Branagh è agli antipodi, ci scaraventa all'alba del '600 pur avendo a che fare con beghe familiari, amministrative e matrimoniali, senza che lo spettatore abbia mai la sensazione di osservare dei suoi contemporanei in azione, ma percependo bensì forti e pesanti le pagine di storia che ci separano da quel 1600. Né Shakespeare perde un grammo della sua iconografia e della sua aurea quasi leggendaria, non diventa il nostro vicino di casa; pur riconoscendone la grande profondità, saggezza, perspicacia e talento (quindi qualità prettamente umane e familiari), sappiamo di star sbirciando eventi irripetibili e cristallizzati in un altro spazio ed in un altro tempo. Branagh ha realizzato un film capolavoro, un incantesimo bucolico, sentimentale e sognante, che si conclude solo quando l'ultimo dei titoli di coda è scomparso e l'ultimo canto si affievolisce. Branagh è vivo più che mai!