American Beauty

American Beauty
American Beauty

Cinque premi Oscar in un botto solo non è cosa da tutti i giorni, perdipiù se sei un regista esordiente e se gli attori che hai scelto non erano esattamente graditi da chi metteva i soldi. Sam Mendes se li prende nel 2000 con American Beauty, film che poi diventerà anche un fenomeno di costume, e la cui scena fatta di petali cremisi e Mena Suvari che ammicca verrà riproposta e parodiata urbi et orbi. La storia è quella di una famiglia borghese americana, anzi due; la prima, formata dallo scrittore/giornalista Kevin Spacey (Lester), dall'immobiliarista Annette Bening (Carolyn) e dalla studentessa Thora Birch (Jane), la seconda formata dal colonnello dei Marines Chris Cooper (Frank), dalla moglie Allison Jenney (Barbara), depressa patologica, e dal figlio Wes Bentley (Ricky), videomaker amatoriale e spacciatore di droga. Oltre loro, c'è pure Angela (Mena Suvari), la ragazza popolare della scuola, bionda avvenente e molto spigliata per la sua età, che Jane frequenta assiduamente. Le famiglie dei Burnham e dei Fitts vengono volutamente ritratte agli antipodi, per equilibrio, valori, estetica. Vialetto di casa, automobile, villette a schiera, giardini fioriti di rose, cucine spaziose, camere al piano di sopra, garage con palestra, divani floreali, rapporti di buon vicinato, lo stile di vita americano si esplica all'ennesima potenza. Le dinamiche e le relazioni tra questi personaggi sono il centro nevralgico di American Beauty, un micromondo che per analogia è tutta l'America, nelle quasi 2 ore di pellicola.

Vedere American Beauty da americano è un po' come vedere La Grande Bellezza se sei italiano. Con le dovute differenze, secondo me l'effetto deve essere simile. Esattamente come il film di Sorrentino tracima autoreferenzialità, autocompiacimento e, come quadri, inchioda alla parete tipici atteggiamenti "italiani", American Beauty è un film americano fatto da americani per americani, che poi naturalmente per ragioni di business e marketing viene distribuito in tutto il mondo. Qui c'è una differenza, mentre il modello americano - a torto o a ragione - si impone fisiologicamente in ogni angolo del globo, colonizza e attecchisce ovunque, forte del suo carisma e della sua pervicacia, quello italiano di Sorrentino funziona per un solo motivo, l'effetto "Dolce Vita" di Fellini. Non mi dilungo troppo su questo, poiché ne ho già scritto nel relativo post, ma l'italianissimo La Grande Bellezza è potuto funzionare all'estero solo perché regala ai non italiani lo stereotipo dell'Italietta della Fontana di Trevi, dell'ozio epicureo, del glamour da paparazzi e dei salottini radical chic, la macchietta dell'italiano che ha sempre funzionato fuori dai confini nazionali. Detto tutto ciò, tanto ho trovato abominevole la pellicola di Sorrentino, quanto interessante, anche se ruffiana e discutibile, quella di Mendes.

American Beauty è un ottimo film, tecnicamente parlando. Ha respiro, inventiva, mescola liquidamente realtà e surrealtà, ha un linguaggio dinamico, personaggi credibili e sfaccettati, anche se estremizzati nei loro comportamenti, un uso delle musiche appropriato (pestifero invece quello di Sorrentino), una gran bella fotografia. La confezione insomma ha poco da essere criticata, regge e alla grande. Sul contenuto invece può creare qualche disagio, non tanto per la materia trattata, indubbiamente spigolosa, quanto per il come viene trattata. La sceneggiatura di Alan Ball decide di non farsi mancare niente, ma proprio niente: stile di vita americano, affermazione dell'Io (Scientology è ad un passo), culto del lavoro (anche come dimensione esistenziale) e dell'efficienza lavorativa, culto dell'attività fisica, crisi della famiglia, crisi dell'età adolescenziale, riscatto personale, omosessualità, pedofilia, materialismo, sessualità, droghe. Su ognuno di questi argomenti si potrebbe realizzare un film, Mendes li usa tutti nello stesso film. Chiunque può trovare un pezzettino di sé in American Beauty, perché quando copri l'intera enciclopedia dalla A alla Z ci sei dentro per forza pure tu. Astuta l'operazione inclusiva che sceglie di abbracciare tutto e non focalizzare in modo troppo intenso e pericoloso (ovvero esclusivo) nulla. Al servizio (più o meno consapevole) di questo progetto si mettono gli attori, spesso e volentieri molto plateali nelle loro espressioni. Spacey fa faccette continuamente, assume posizioni grottesche e caricaturali, così come caricaturali sono le reazioni e i piagnistei della Bening davanti ai suoi quotidiani fallimenti. Di contro la Birch è funerea, marmorea, sciogliendosi nell'unico momento del film che non descrive tanto il suo personaggio quanto la necessità di Mendes di accattivarsi l'audience, lo strip alla finestra con tanto di topless. Non era necessario per il personaggio di Jane, ma vuoi che al pubblico non abbia fatto piacere?

C'è molta ironia, direi sarcasmo beffardo, in American Beauty, ma lotta gomito a gomito con una melodrammaticità troppo accentuata; Spacey, Bening, Cooper, Suvari sono teatrali, appariscenti, scenografici, enfatici, esibizionisti nel loro modo di calcare la scena. Ciò purtroppo ad ogni fotogramma ricorda allo spettatore di star vedendo un film e non una storia nella quale si può realmente immedesimare fino in fondo. Uniteci il fatto che molto probabilmente voi il vialetto di casa alberato non lo vedete dalla vostra finestra, che il fuoristrada non lo avete in garage, e che la vostra colazione non viene servita in una luminosissima cucina extralarge a suon di pancetta, toast e uova strapazzate, e le possibilità di entrare "dentro" la storia che vi scorre davanti si riducono drasticamente. American Beauty è bello da vedere, ma ti tiene a distanza, gigioneggia, se la canta e se la suona, voi non fate parte di quel mondo. C'è spazio anche per quei dialoghi dall'orizzonte infinito, che piacciono molto al cinema americano commerciale ma impegnato al contempo, quelli sulla vita, la morte, la bellezza, considerazioni esistenziali che lì per lì tuonano come l'annunciarsi di un fragoroso temporale, ma poi, un attimo dopo essere state pronunciate, si sgonfiano come un soufflé venuto male.

Mike Nichols e Robert Zemeckis furono contattati per dirigere il film ma non accettarono l'offerta. Bruce Willis, Kevin Costner e John Travolta sarebbero dovuti essere Lester, mentre Helen Hunt o Holly Hunter avrebbero dovuto indossare i panni di Carolyn. Fu l'impuntatura di Mendes ad assicurare la presenza di Spacey e della Bening. Spacey si è ispirato a Walter Matthau per il suo personaggio, mentre Mendes gli chiedeva piuttosto di guardare al Jack Lemmon de L'Appartamento. Molto spazio è stato concesso all'improvvisazione sul set, ad esempio la scena dell'autoerotismo di Spacey è una di quelle. E a tal proposito, il film ha diverse cadute di stile, un paio le ho citate, Thora Birch alla finestra e Spacey che si sgranchisce sotto le lenzuola, (lo aveva già fatto pure sotto la doccia). Troppo demenziale la scena di sesso tra la Bening e Buddy Kane, più elegante la chimica seduttiva tra Spacey e la Suvari nella penombra del salotto dei Burnham. Il film ha la fama di pellicola politicamente scorretta, ma il punto è proprio questo, la scorrettezza di American Beauty è posticcia, cercata insistentemente, artefatta, è dunque, paradossalmente, più di facciata e conformista di quanto si pensi.

Trailer ufficiale

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