Una Estranea Fra Noi

Una Estranea Fra Noi
Una Estranea Fra Noi

Non so perché ma vedendo il film mi ero fatto l'idea che si trattasse di una produzione degli anni '80, magari anche tardi, ma anni '80, invece poi spulciando tra i credits scopro che Sidney Lumet licenzia questo film nel 1992; curioso, davvero non avrei detto che fossimo già in quel decennio. Immagini e fotografia parevano tradire un'età più marcata. Il regista di Filadelfia è un po' a fine carriera, una meravigliosa carriera intendiamoci, dopo questa prova arriveranno altre 7 pellicole, l'ultima del 2007 (Onora Il Padre E La Madre), quindi Lumet passerà a miglior vita nel 2011. Esordisce come attore a quattro anni, nello Yiddish Art Theatre di New York dove i genitori, ambedue ebrei, si esibiscono, il padre come attore, la madre come ballerina. Questo dettaglio torna immediatamente in mente mentre si guarda Una Estranea Fra Noi poiché indubbiamente Lumet avrà potuto ricorrere a tanti aneddoti e ricordi autobiografici nella composizione della storia. D'altra parte è impossibile non associare il film a quello interpretato da Harrison Ford nel 1984, Witness - Il Testimone, di Peter Weir. La vicenda raccontata da Lumet pare la versione al femminile. Stavolta anziché avere Ford che viene accolto in una comunità amish, abbiamo Melanie Griffith. In entrambi i casi gli amish accolgono un/una poliziotto/poliziotta che indaga su di un omicidio, anche se nel caso di Witness, un bimbo della comunità è stato testimone involontario del delitto e Ford si incarica di proteggerlo, mentre nel film di Lumet l'omicidio è tutto interno al mondo amish e la Griffith deve scoprire il colpevole.

Al di là della costruzione iniziale del caso poliziesco, del come ci si arriva insomma, tutto il corpo centrale del film, la ragione sociale, fa davvero scopa con il precedente cinematografico di Witness. Lo scontro dei due mondi, quello cinico e materialista del/della protagonista che da esterno penetra una bolla fuori dal tempo fatto di codici, regole e severità inderogabili. Inizialmente l'impatto è forte e potente, le inconciliabilità sembrano irriducibili, ma progressivamente la contaminazione reciproca trova la sua strada, gli amish capiscono che fuori dai loro stretti confini non albergano solo il male e la disumanità mentre, di contro, l'ospite scopre che sotto formalismi ai limiti dell'autismo si celano sentimenti profondi, veri autentici, una generosità d'animo e una disponibilità verso il prossimo che forse il mondo reale, quello privo di Dei, ha totalmente smarrito. Per la verità a Lumet la parte poliziesca della sceneggiatura interessa poco, lo si capisce abbastanza rapidamente, è appena un pretesto per arrivare a raccontare ciò che davvero gli preme, il confronto tra yin e yang, il modo destabilizzante nel quale due sensibilità si incontrano, si scrutano (chi con sospetto, chi con sarcasmo), si studiano a lungo ma poi finiscono per tendersi le braccia l'una verso l'altra. Oltre naturalmente all'eruzione di quella forza anarchica, imprevedibile ed ingestibile che è l'amore, inteso come passione. Come per Witness infatti, anche qui due "diversi" si innamorano, con tutto ciò che ne consegue, segno che le barriere si possono abbattere, sempre e comunque. Se però in Witness la componente thriller è molto intensa, tanto quanto quella sentimentale e drammatica, qui invece tensione e indagini sono molto blande ed edulcorate, sinceramente un po' svilite. Si partirebbe anche bene, se non fosse che per un'oretta buona non se ne sa più niente e verso la fine la matassa viene sbrogliata in modo grossolano, banalissimo e svogliato, quasi come se a Lumet fosse toccato farlo perché oramai ne aveva gettato le premesse ad inizio film.

C'è un doppio finale, se il primo è di una faciloneria sconcertante, il secondo - minimamente più sottile - viene risolto in quattro e quattr'otto, con assunti logici molto velleitari ed un twist psicologico dei diretti interessati francamente inspiegabile e sin troppo repentino (se non fosse stata la mera necessità di sceneggiatura a richiederlo). Tralasciato quindi l'aspetto poliziesco, che come detto non è il piatto forte del menù, Lumet svolge comunque un ottimo lavoro su ciò che davvero lo stimola. Tutta la parte di inserimento e convivenza della Griffith nel mondo amish è estremamente affascinante, dettagliato, ben descritto. Anche  a livello registico, la fotografia si fa calda, morbida, accogliente, quasi pittorica, proprio a testimoniare il senso di dolcezza e di mancanza totale di minaccia che la poliziotta (dal cuore duro) sperimenta sulla propria pelle. Qui la Griffith scopre di avere un'anima e che quell'anima non è poi così soddisfatta della vita condotta fino a quel momento, c'è dell'altro e forse non è il caso di perderlo. E' pur vero che nei primi momenti i dialoghi non sono sempre ben scritti. Ad esempio nei primissimi passi dell'indagine, quando la poliziotta interroga i primi amish c'è un po' di faciloneria e pressapochismo; serve a esaltare le differenze e tracciare i confini col filo spinato, d'accordo; però la Griffith ne esce con le ossa un po' rotte, perché il suo personaggio rasenta una superficialità tale da renderlo quasi stupido. Poi le cose migliorano. Qui la Griffith era ancora molto bella, lontana dalle tumefazioni alle quali ci ha poi purtroppo abituato. Da notare che nel ruolo di un mafioso italoamericano (la fiera dello stereotipo, per altro) c'è un esordiente James Gandolfini, poi diventato celebre come boss mafioso italoamericano nella serie tv I Soprano. L'intera vicenda conta parziali riferimenti ad un vero fatto di cronaca accaduto nel 1977, l'omicidio di un gioielliere ebreo, Pinchos Jaroslawicz.

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