Infinito capolavoro del cinema gotico, inesauribile forziere dal quale tutti coloro che sono venuti dopo si sono abbeverati per creare quel tipo di atmosfere, di brividi, di ambiguità sottesa, di chiaroscuri, quel rapporto perverso (e al contempo affascinante) con una torbida e latente malevolenza. Suspence (stolto titolo italiano che sostituisce l'appropriatissimo The Innocents) è l'adattamento cinematografico da parte di William Archibald e Truman Capote de Il Giro Di Vite di Henry James. La sua maggior qualità è sostanzialmente quella di aver saputo ricreare su fotogramma le pagine di James, mantenendone inalterato il clima, il sapore, la magia (nera e soprannaturale). Già questo non è affatto cosa da poco e merita un plauso generoso e sincero. Jack Clayton ha diretto pochissime pellicole in carriera (mannaggia) e tra queste Il Grande Gatsy; qui il connubio con la scozzese Deborah Kerr regala una cifra unica ed irripetibile al film che forse solo alcuni momenti polanskiani sono riusciti a restituire con altrettanta potenza destabilizzante e stordente. La storia è arcinota, miss Giddens (Deborah Kerr) viene incaricata da Michael Redgrave (lo zio dei bambini) di insediarsi a Bly, presso la sua immensa tenuta, per aver cura dei nipoti. Egli non ha tempo (men che mai voglia) di farlo, dovendo perennemente sbrigare i propri affari (e piaceri). Miss Giddens, al suo primo incarico, accetta di buon grado e si stabilisce alla reggia. Conosce la servitù e i bimbi, e progressivamente scivola nella follia, come accaduto alla precedente governante (morta suicida). Uno Shining ante litteram ma con sfumature assai diverse. Miss Giddens è preda di visioni ed allucinazioni, ed individua nei bambini il tramite tra la realtà, se stessa ed un mondo onirico e parallelo dal quale i morti sembrano voler comunicare con i vivi (avete pensato anche a The Others? Eh beh....).
Suspense è un incantesimo che si tramuta in sortilegio, una maledizione ineludibile, un giogo impalpabile che avviluppa e stritola lo spettatore, proprio come accade alla povera miss Giddens. Clayton rappresenta la storia con una eleganza formale impeccabile, ogni dettaglio è al posto giusto, nel momento giusto, offerto al pubblico al meglio. Il regista ci teneva moltissimo a differenziarsi dallo standard Hammer che all'epoca andava per la maggiore in ambito orrorifico. Durante la visione, sin dai primissimi istanti il terrore, quello vero, si insinua sotto pelle e non ci abbandona più. La grandezza del film sta nell'ambiguità di fondo che rimane assolutamente "aperta" anche una volta che tutto si compie. Si può decidere che miss Giddens abbia ragione e sia soverchiata da forze ultraterrene, oppure che sia proprio lei l'ingranaggio marcio del meccanismo e che con la sua isteria porti alla malattia (ed oltre) chiunque la circondi. Poi c'è la magione che con i suoi scricchiolii, i suoi spifferi e le sue ombre amplifica ed eleva tutto a potenza. C'è la signora Grose (Megs Jenkins) che sa più di quanto vorrebbe ma dice meno di quanto dovrebbe, che in cuor suo sa di dover sostenere miss Giddens ma allo stesso tempo è spaventata a morte, così come ama e teme i bambini (enorme il dialogo tra le due governanti sul perché Miles sia stato espulso dal collegio). Innocenti per definizione, e la chiave sta proprio nella presunta innocenza dei bambini, si pensi al bacio che Miles strappa a miss GIddens (e che lei più avanti gli restituirà). Enorme la prova attoriale della Kerr, che vive di pane ed obliquità per tutto il film, recitando in modo sottile, misurato, aristocratico. Idem dicasi per Martin Stephens (Miles) e Pamela Franklin (Flora), due piccoli "mostri" di bravura capaci di alternare dolcezza e sguardi mefistofelici tali da raggelare il sangue. La Franklin era al suo esordio mentre Stephens aveva partecipato l'anno prima a Il Villaggio Dei Dannati. Ai bambini fu consegnata una sceneggiatura incompleta, mancante degli elementi più adulti del film, anche per preservarne la genuinità dei relativi personaggi. Inoltre, dato il contesto horror, si ebbe cura che la loro permanenza sul set fosse il più possibile all'insegna della tranquillità.
Non c'è un solo fotogramma fuori posto, un solo dialogo non ficcante, uno solo sguardo non penetrante; un'opera perfetta, di una delicatezza davvero "satanica", che ci fa costantemente sentire in pericolo, minacciati. Geniale l'aver centellinato la musica, lasciando ampie parti di film ai soli rumori di scena, sacrali ed intimi nel loro raccontare le immagini. La litania del salice intonata da Flora basta ed avanza a regalare fiumi di angoscia, non a caso precede i titoli di testa; mentre quelli di coda sono letteralmente agghiaccianti. Il finale è come un'esplosione nello spazio, in assenza di ossigeno, un urto violento silenziato dall'entropia. Del tutto coerente con la componente "psicologica" che pervade l'intera vicenda. Il minimalismo delle luci, la profondità di campo, una regia attentissima, fanno da cornice alla claustrofobia che poggia evidentemente anche sul lascito del cinema espressionista tedesco, a proprio agio con il gotico anglosassone ottocentesco. Suspense nel corso del tempo si è prestato a varie disamine psicanalitiche che hanno tentato di sviscerare significati reconditi. Immancabile quella secondo la quale frustrazione e repressione sessuali di miss Giddens sono alla base del suo scivolamento nella pazzia (ricordatevi dei baci con Miles, o pensate alla pressante curiosità di sapere i dettagli della relazione tra Quint (Peter Wyngarde) e miss Jessel (Clytie Jessop). Clayton stesso perorò la causa di un crescendo autoinflitto da miss Giddens, la quale più o meno è artefice di tutto ciò che accade e, in ultima analisi, potrebbe davvero essere la causa (unica) dell'impazzimento generale, e persino della tragedia che vediamo compiersi nell'ultimo fotogramma. Checché ne dica Clayton, la dimensione del film va oltre le sue stesse intenzioni, rimanendo una storia che non si chiude e non si presta ad interpretazioni univoche e troppo nette.