
Roma, l'Altra Faccia della Violenza (di Marino Girolami, 1976) è un bel poliziottesco di mestiere, capace di miscelare diversi sottofiloni interni al genere. C'è infatti il solito commissario con le palle de fero che se la vede con la Mala, mentre parallelamente si pesca anche nel genere "giustizia fai da te" (un cittadino si fa gustizia da solo, vista la consueta pochezza di risultati delle indagini della polizia) e in quello "ragazzi bene col grilletto facile", sull'onda emotiva - dell'epoca - dei delitti del Circeo. Tre film in uno insomma, come le pastiglie della lavastoviglie. Girolami, che si firma come Franco Martinelli, gira con maestria e piglio sicuro, i momenti cult sono più di uno. Su tutti la scena delle volanti della polizia prese a sassate e male parole dalla gente de' borgata (cit. er Califfo) quando la Madama si spinge nei vicoli alla ricerca di due malviventi. Lo scontento e la rabbia sociale sono tali che la cosiddetta "povera gggente" rifiuta la presenza dell'Autorità, arrivando a difendere i delinquenti. Uno spaccato di cronaca vera che fa un certo effetto. Così come sempre alla cronaca vera (e nera) si ispira la vicenda della band di borghesi benestanti e figli di professionisti con la Rolls e la villa ai Parioli che decidono di praticare l'ultraviolenza, con rapine e stupri, giusto per ingannare la noia, dal momento che non ci sono problemi economici alle spalle, né si fa il minimo accenno alla droga. E' proprio stronzeria congenita, da debosciati arroganti (l'altra faccia della violenza, appunto).
Accade che durante l'ennesima rapina, venga uccisa una sedicenne, figlia dell'Ing. Alessi, già vedovo. Alessi perde la testa e, vista anche l'inconludenza delle indagini (che addirittura portano ad incriminare dei pregiudicati che nessun ruolo hanno coi fatti criminali in questione), decide di ergersi a Charles Bronson del caso, armarsi e partire alla ricerca dei colpevoli dell'uccisione dell'adorata figlia. Li trova e li ammazza uno per uno, implacabile, salvo scoprire anche che.....e il finale ve lo lascio in gestione, dato che c'è un interessante sottotrama da scoprire. Stracult di Marco Giusti dice che Anthony Steffen come padre di famiglia giustiziere non funziona, troppo bollito e compassato; e invece no, funziona funziona, con quella sua aria allucinata e quel look un po' dandy, un po' conte transilvano de' noantri. Tra i pariolini con la fregola dello stupro c'è pure un giovanissimo e ciuffatissimo Valerio Merola.... se non è premonizione questa! Il commissario Carli è un durissimo Marcel Bozzuffi, con la risposta sempre pronta e lo sguardo paraculo. Enio Girolami è Ferreri, il suo attendente, un po' goffo ma pure lui con i testicoli in ghisa. Jean Favre è il leader dei figli bene con la evve moscia, gran bel personaggio il suo, recitato alla grande. Un vero pezzo di m....ota. Pioggia di caratteristi coi fiocchi poi, da Enzo Andronico a Franca Scagnetti, da Franco Diogene a un Sergio Fiorentini che non avevo mai visto così giovane. Notevole la scena splatter del "biondo" che, in fuga dalla Pula, termina la propria corsa in strada, mentre ad un incrocio un bell'autobus verde vecchia maniera lo mette sotto, maciullandolo ben bene con tanto di intestino che schizza per aria in un laco ti sancue! Unico neo, la velocizzazione un po' macchiettistica di alcuni inseguimenti e delle scene di botte - cosa molto in voga all'epoca - possibile che nessuno si rendesse conto dell'effetto comica? E a proposito di comiche, a dirla tutta c'è pure un poliziotto, Massimo Vanni, che viene ucciso ad inizio film in una sparatoria, ma poi a un certo punto riappare, come Lazzaro, cosa di cui per la verità non mi ero neppure accorto sul momento.
Il film pare proprio voler mettere in scorno la classe agiata della società romana (si veda anche gli avvocati azzeccagarbugli di Favre) ed è molto difficile per lo spettatore che si lascia trasportare non provare un brivido di godimento quando, uno a uno, gli assassini stupratori vengono freddati dall'Alessi. C'è una lunga ed insistita scena di stupro che mette davvero a disagio, così come ogni qual volta Girolami ritrae la malavita di strada, lo fa lasciando intravedere una sorta di codice di autodisciplina, una specie di moralità interna che segna dei limiti invalicabili, limiti che il cinismo e l'abiezione dei pariolini, a cui tutto è concesso, non conosce affatto. Un film un po' proletario e operaio insomma, dove anche la stessa polizia non viene dipinta come un manipolo di fascisti maneschi e reazionari, ma come un potere dello Stato impotente magari, ma all'effettivo servizio del cittadino. Cosa piuttosto rara in ambito poliziottesco.