
La Ragazza Che Sapeva Troppo è considerato il film che istituzionalmente fonda il genere del giallo all'italiana. Scusate se è poco. Chiudo qui il post e pedalare? Ok dai, continuo, anche se.... a Mario Bava cosa vuoi dire? Come può un Cineraglio qualsiasi pretendere di sparare sentenze, e infatti le sentenze le lasciamo a casa, e proviamo solo a spendere qualche parola in libertà, mere impressioni personali, corroborate dalla infinita letteratura prodotta dal cinema di Mario Bava. Anno domini 1963, Bava ha l'intuizione di fondere brillantemente due filoni, l'espressionismo tedesco e il giallo hitchcockiano; non solo, su una simile intelaiatura (estetico-ritmica) sovrappone il suo gusto e la sua personalissima personalità artistica, pervadendo la pellicola di una raffinatissima ed adorabile vena ironica (autentico humor nero), un po' cinica e perversa, e non lasciandosi sfuggire neppure la possibilità di contaminare la vicenda thriller con una pennellata di sentimentalismo, ottenendo così un multicromatismo che svaria dal giallo al nero, financo al rosa. Il titolo del film cita esplicitamente Hitchcock (L'Uomo Che Sapeva Troppo); la sublime fotografia, l'uso delle ombre, delle penombre e dei chiaroscuri, le fughe prospettiche, gli improvvisi tagli di luce geometrica sul volto di Letícia Román fanno concorrenza ad un Fritz Lang; le riprese notturne ritraggono Roma come egli avrebbe interpretato Berlino. La componente onirica e fantastica, tanto delle scenografie quanto della sceneggiatura, ha un che di kafkiano, così come il clima di minaccia incombente potrebbe essere associato con facilità all'asfissiante caccia a M (il mostro di Dusseldorf). Espressionismo tedesco in piena regola, però suffragato da ambientazioni italiane, segnatamente capitoline. Come fare il giro del mondo in 92 minuti insomma, e del resto se il cinema di Bava aveva un respiro internazionale un motivo c'era. Peccato che lo abbiano capito più all'estero che in Italia.
Dario Argento, come è noto - e non solo lui - è andato a nozze con tutti i cliché istituiti da Bava. Eventi ai limiti del verosimile (basti pensare alla incredibile concatenazione di guai che capitano alla Román nei primi minuti: il trafficante di droga all'aeroporto, la morte della sua ospite, lo scippo sulla scalinata di Trinità dei Monti, la testimonianza dell'omicidio, una manciata di fotogrammi per un cataclisma rocambolesco di delitti); architetture urbanistiche e scenografie "narrative" sempre molto presenti; un senso di pericolo a 360 gradi; sottolineature tematiche date dai rumori di fondo e dalle musiche; accesi e forti cromatismi (in questo caso il b/n e l'uso delle luci); il ruolo chiave di un testimone oculare, nonché quello delle parentele dei personaggi (a buon intenditor....); l'irruzione di squarci fantastici, più o meno riconducibili a posteriori a spiegazioni logiche. Prendiamo ad esempio l'omicidio visto dalla protagonista, il suo è un evidente stato confusionale, tuttavia il volto messo a fuoco è quello di Giovanni Di Benedetto (il Prof. Torrani), eppure sappiamo che poi la percezione avuta da Nora Davis/Letícia Román verrà smentita. Quella visione per altro appartiene ad un'altra dimensione, quella che va oltre la soglia del tempo. E, infine, ad enigma risolto, la stessa Nora Davis si chiede se le sigarette "stupefacenti" che le aveva donato il trafficante sull'aereo non siano da considerarsi le reali artefici di tutti gli eventi (a questo punto immaginari) vissuti nelle ultime ore. Bava ci gioca su, potrebbe essere, oppure no, manco importa, l'avventura è stata consumata. Deliziose le parentesi che il regista apre nella trama gialla, tra un climax e l'altro di tensione; ad esempio il consulto dei medici all'ospedale, quando la povera Nora, vista come una piccola bambina dispersa in un letto gigante, e coperta dalla vergogna fino al naso, ascolta le sentenze grossolane che i dottori le riversano addosso. I giochi di prospettiva tra lei e gli uomini in posizione eretta sono buffi. Oppure quando John Saxon (che poi diverrà presenza abituale del cinema di genere italiano) porta la Román al mare; i due flirtano sul bagnasciuga, e l'invitante corpo dell'attrice romana (nome di battesimo Letizia Novarese) fa bella mostra di sé attraverso un bikini irresistibile per Saxon. Estremamente caratteristica pure la figura dell'assassino, che si presenta come un insano di mente, destabilizzato e maniacale, qualcosa che ineludibilmente porterà ai pazzi sanguinari di Argento.
Teribbbile invece la canzone di Adriano Celentano ("Furore") che apre il film, e torna poi sotto altra forma, velocizzata parossisticamente, forse anche quella una dimostrazione della sadica ironia baviana. La American International Pictures distribuì il film negli States, lo ribattezzò The Evil Eye, ne taglio ampie parti (tra cui tutta quella relativa alla presenza di marijuana) e gli assegnò una diversa colonna sonora. Si è verificato pure il caso che, una volta tanto, gli americani sono stati più cretini di noi. Chiudo con un parallelo tra Bava e Argento, non farina del mio sacco ma opera della acuta osservazione di un utente del forum GdR, che riporto integralmente: "di Dario Argento anticipa quasi tutto: la soggettiva dell'assassino (anche se qui non realizzata con macchina a spalla), la Clara Calamai di Profondo Rosso (qui perfettamente codificata da Valentina Cortese), il rapporto Hemmings-Nicolodi di Profondo Rosso (qui Saxon-Román), con piccoli scontri buffi tra i due e abilità maldestre nell'indagine, l'investigatore che chiama il protagonista al telefono preannunciando di aver scovato una traccia fondamentale ma poi... (qui è Dante Di Paolo, in 4 Mosche Di Velluto Grigio è Jean Pierre Marielle), la scoperta fuorviante nel prefinale molto simile a quella de L'Uccello Dalle Piume Di Cristallo, la gag della difficoltà di comunicazione per il rumore d'ambiente (qui la tipografia di un giornale, in Profondo Rosso un bar), l'ambientazione al Coppedè, etc.",