La Parola Ai Giurati

La Parola Ai Giurati
La Parola Ai Giurati

Esistono varie versioni di questo soggetto (di Reginald Rose), nel 1997 William Friedkin ne curò una omonima per la tv con un cast di tutto rispetto che comprendeva tra gli altri Jack Lemmon, James Gandolfini, George C. Scott; nel 2007 Nikita Mikhalkov gira 12, ma esistono anche adattamenti indiani (Ek Ruka Hua Faisia, 1986) e cinesi (12 Citizens, 2014), e svariate citazioni televisive (da Happy Days a I Simpson, da I Griffin a La Signora In Giallo, passando anche per Veronica Mars e Ai Confini Della Realtà). Il film di Sidney Lumet del 1957 viene usualmente considerato il primo sebbene anch'esso in effetti sia un riadattamento del soggetto originariamente scritto per la televisione e andato in onda per la CBS nel 1954. 96 minuti dei quali 93 girati nello stesso ambiente, quattro pareti, un tavolo, un ventilatore e 12 sedie, la stanza nella quale la giuria popolare di 12 cittadini deve decidere se mandare sulla sedia elettrica un ragazzo diciottenne accusato di parricidio. Alle spalle di quel drappello di uomini c'è il sistema costituzionale americano, 12 persone qualunque, che non si conoscono tra loro e che non hanno alcun rapporto diretto con l'imputato, chiamate per posta a rivestire il ruolo di giudici, scevri da interessi personali e pregiudizi. O almeno così dovrebbe essere. Quello che appare chiaro sin da subito è che invece il pregiudizio non rimane affatto fuori da quella porta ma anzi si catapulta nella stanza con tutta l'arroganza e l'irruenza di cui è capace. E' il più caldo giorno d'estate, la permanenza coatta è insopportabile, ognuno ha il suo d'affare, chi deve mandare avanti la propria autofficina, chi ha i biglietti per la partita di baseball, chi il posto in ufficio che lo aspetta. Decidere dopotutto dovrebbe essere uno scherzo da niente, tutte le prove indiziarie e le due testimonianze principali condannano il ragazzo, pronunciarsi diventa una formalità. La prima votazione va 11 colpevolisti contro 1 innocentista (Henry Fonda). Deriso e mal sopportato inizialmente, l'uomo si incarica di costringere ad una reale discussione i suoi "antagonisti", chiedendo uno sforzo di analisi di ogni singolo dettaglio, particolare, prova che sia stata presentata nel processo.

12 Uomini Arrabbiati (questo il titolo originale) è la storia di una battaglia in salita, di una vetta da scollinare con le soli armi della pazienza, della ragione e della determinazione. I pilastri su cui si fonda l'umanità di Henry Fonda (il giurato n. 8, che solo nell'ultima scena scopriremo chiamarsi Davis) sono l'etica, la morale, il rigore, la rettitudine. Quel giurato sente tutta la responsabilità che è chiamato a rivestire con il proprio ruolo di boia o salvatore ma, quale che sarà l'abito che indosserà, dovrà farlo nella piena convinzione, oltre ogni ragionevole dubbio, come recita un caposaldo del diritto americano. Non tutti i suoi compagni di viaggio la pensano così e Fonda dovrà lottare contro la superficialità di giudizio (nella migliore delle ipotesi) o persino contro il razzismo, il classismo, il qualunquismo, ma anche contro il più temibile degli avversari, la vendetta personale. L'impianto teatrale del film tradisce la stringente ed inderogabile necessità di affidarsi a 12 attori perfetti, impeccabili, eccellenti, perché anche un solo passo falso, un volto non convincente, una caratterizzazione psicologica debole, avrebbe fatto saltare l'intera catena, depotenziando il risultato finale. Lumet (che tra l'altro qui è al suo esordio) è magnifico nel dare un taglio quasi thriller al dramma, in totale assenza di movimento, cambi di scena o espedienti di sorta capaci di infondere dinamismo. Intendiamoci, in realtà ne usa, sapientemente, ma si tratta di micro movimenti, espressioni, inquadrature, "trucchi" insomma che aiutino il regista a rendere il meno pesante possibile la costrizione che i paletti narrativi impongono. Ad esempio inizialmente la macchina da presa si posiziona al di sopra dello sguardo dei personaggi, con lenti grandangolari, a sottolineare la distanza (fisica e metaforica) tra i vari giurati. Passo passo le inquadrature si restringono, si focalizzano, fino a che sul finale abbondano i primi piani, sparisce il grandangolo, la profondità di campo è quasi azzerata. La tensione sale e questo deve risultare tanto dalla situazione (il contenuto) quanto dal modo in cui questa viene raccontata (la forma).

Persino i termini usati nei dialoghi spersonalizzano tutto, poiché non c'è un nome speso, ci si rivolge agli altri con "il vecchio", il ragazzo", "il tipo", "la donna", eccetera (tranne come detto nel finale, esattamente l'ultima scena, la quale tuttavia ha un significato molto importante perché i due giurati che si presentano si riconoscono reciprocamente valore e la stima proprio in quel rivelarsi il nome). Dal 2007 La Parola Ai Giurati è stato inserito tra i migliori 100 film americani. Copiose nomination agli Oscar, ai Golden Globe e ai Bafta, ma nessun premio vinto (salvo un Bafta per Fonda come miglior attore). Quell'anno l'Oscar andò a Il Ponte Sul Fiume Kwai. Oltre a tv e grande schermo, La Parola Ai Giurati ha conosciuti molti adattamenti teatrali, non ultimo quello italiano curato da Alessandro Gassmann che ho avuto la fortuna di vedere, abbastanza fedele all'originale, anche se leggermente più glamour e con un apporto delle musiche più spiccato. Si potrebbe e si dovrebbe stare ore a descrivere ogni singolo giurato, ovvero ogni singolo attore, per la grandiosità della prova resa, tuttavia non possono non entrare nel cuore in particolare il giurato n. 3, Lee J Cobb ed il giurato n. 9, Joseph Sweeney, le due polarità contrapposte entro le quali Henry Fonda cerca di muoversi, tra mille difficoltà, fragilità e ripensamenti. Un film immenso, la quintessenza dell'impegno civile fatto celluloide, un titolo che chiunque dovrebbe vedere almeno una (dieci, cento) volte nella vita, la miglior lezione di educazione civica che degli studenti potrebbero ricevere in classe. Personalmente è sul podio dei miei tre film preferiti di sempre.

Trailer ufficiale

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