Everest

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Si narra che dopo Lo Squalo alcuni spettatori si riufiutarono di mettere un piedino in acqua per diverse estati. Se ne avete sempre riso perché a voi il mare non piace e siete tutti montagna, trekking e polenta con le salsicce, beh potreste vedere che effetto vi fa Everest di Baltasar Kormákur, multiproduzione anglo-amero-islandese, girata in parte anche in Italia, tra Roma e la Val Senales (ma anche e soprattutto in Nepal, ovviamente). Trattasi di storia vera, quella dei poveri cristi che si affidavano all'Adventure Consultants per essere portati in cima all'Everest e poi riportati già, alla quota "essere umani normodotati senza nulla a pretendere". Il giochino è subito chiaro; chi deve salire sulla montagna più alta del mondo, chi deve sottoporsi alla sfida più estrema che possa esistere sul pianeta, chi può reggere alle condizioni di sopravvivenza più proibitive che il corpo umano possa sopportare? Un esperto, uno tosto, uno che sa cosa sta facendo, che ha esperienza, competenze ed allenamento. Invece l'Adventure Consultants ti portava sul tetto del mondo a pago, assicurandoti tutto ciò che tu non avevi, il know how. Sentite anche voi puzza di bruciato?

Nel maggio del '96 varie spedizioni, più o meno professionali, si contendono la scalata, compresa quella della A.C., guidata da Rob Hall, proprietario della baracca, esperto scalatore nonché futuro imminente padre. Salutata la compagna Jan con la promessa di fare ritorno per veder nascere la prole, si mette alla testa del suo drappello di eroi della domenica e inizia la scalata, mentre tutt'intorno altri plotoni di scalatori fanno altrettanto (non senza qualche gelosia reciproca). La prima metà di film (un'ora esatta) va via così, in salita. Gran fatica, condizioni estreme, entusiasmo a manetta, sforzo fisico immane che fa rima con grandi propositi esistenziali e filosofie di vita prgne di perché e di speranza. Poi inizia il secondo tempo, torvo, minaccioso e colmo di presagi funesti come la tempesta che si abbatte sulla vetta. I più scaltri hanno fatto tana libera tutti e sono corsi giù, qualcuno si attarda, qualcuno già non ce la fa più, c'è chi è in debito di ossigeno, e soprattutto Rob Hall è praticamente costretto a scortare in cima il lentissimo Doug Hansen, uno che si è incaponito ad andare a mettere una bandierina di una scolaresca di bambini proprio sul punto più alto dell'Everest. Tornare al campo base sarà un massacro.

Il film è come spaccato esattamente in due, la prima metà scorre tutto sommato tranquilla (con tutte le virgolette del caso), la seconda lascia esplodere tutta l'adrenalina che finora avevamo notare mancare all'appello. La violenza della montagna si dispiega a pieno potenziale, la discesa a rotta di collo dei vari scalatori è un fuggi fuggi generale, nella tutt'altro che fondata ipotesi di riuscire a salvare la pelle. Si tratta di fatti realmente accaduti e documentati, quindi quello che accade magari lo sapete già, ma in ogni caso - SPOILER: c'è chi non rivedrà mai più una pianura in vita sua (anche tra gli alpinisti professionisti, ad esempio l'incomprensibile Scott Fisher/Jake Gyllenhaal, personaggio enigmatico di cui si afferra ben poco, anche se fa folclore con la sua attitudine da hippie). Qualcuno tornerà miracolosamente a casa ma menomato a vita, altri avranno visto la morte in faccia sfuggendole all'ultimo minuto. Hall (Jason Clarke) perirà eroicamente nel tentativo (vano) di salvare Doug Hansen. Assistiamo agli struggenti ultimi contatti (mediante telefoni satellitari e comlink) tra Rob e la moglie incinta (Keira Knightley), a casa, terrorizzata sul divano mentre il marito gli annuncia in diretta di essere in ipotermia a 8000 m di altezza e destinato a morte certa. Titoli di coda, la montagna titanica ha vinto, l'uomo non è che una pulce impotente.

La bellezza di Everest consiste ovviamente nella sublime potenza dei paesaggi e nella verosimiglianza delle riprese "estreme", ma anche e soprattutto nel suo non eccedere nella spettacolarizzazione dei fatti. Non trasforma una tragedia umana in un blockbuster, tributa il dovuto rispetto alla cronaca di quelle ore, senza urlare, senza tessere lana grossa, ma attenendosi agli eventi e ai luoghi, già sufficientemente spettacolari di per sé. Non è un film di Michael Bay per intenderci. Il cast è corale, anche se a tratti qualcuno si fa fatica ad individuarlo, anche perché perlopiù recitano tutti intabarrati fino alla punta dei capelli. Nonostante nessuno della troupe abbia subito incidenti durante le riprese, in quello stesso periodo (aprile 2014) una valanga ha ucciso 16 sherpa che stavano portando equipaggiamento per un campo di alpinisti. Ad oggi, oltre 200 persone sono morte nel tentativo di guadagnare la vetta; edemi polmonari e cerebrali, assideramento, gravi difficoltà respiratorie, sfinimento, sono solo alcuni dei simpatici diversivi che potrebbero accadervi nella zona cosiddetta "della morte", ovvero oltre gli 8000 m.

L'alpinista Simone Moro, in proposito: La scalata avviene a ritmi lenti, 50/80 metri di scalata in un'ora, si va lentamente sulla vetta, e se arriva brutto tempo lentamente si torna indietro.Oltre gli 8.000 metri l'ossigeno è quasi assente, le capacità fisiche sono annullate, il corpo umano non vive ma sopravvive. Arrivati in cima si prova un senso di piccolezza e non di onnipotenza, si vede la rotondità del globo, e fin quando il tempo è sereno è tutto gioioso, ma lassù il tempo cambia velocemente, e l'arrivo di una bufera può essere fatale. La vera "vetta" però non è la cima, ma il campo base, perché in cima sei solo a metà "strada", poi devi farti la discesa.

Trailer ufficiale

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