Benvenuti all'ennesima puntata de "il vostro amico blogger cinefilo di quartiere vs la commedia italiana contemporanea". Nel 2016 Paolo Genovese - che sta cominciando a diventare un habitué della rubrica, visto che me ne ero già occupato in occasione di Tutta Colpa Di Freud - dirige Marco Giallini (un'altra volta), Anna Foglietta (un'altra volta), Valerio Mastrandrea, Alba Rohrwacher, Kasia Smutniak, Edoardo Leo e Giuseppe Battiston in questa commedia basata sulla diavoleria dei tempi moderni, l'amato/odiato smartphone. Già c'è un'ambiguità di fondo, poiché il moralismo perbenista recita che il cellulare sia il male incarnato, ci distolga dalla realtà, crei mondi illusori e paralleli nei quali ci autoconfiniamo perdendo di vista la dimensione del reale, oltre a mangiarsi la nostra privacy, la nostra intimità; e però allo stesso tempo quell'oggetto del desiderio è ambiguamente accarezzato, vagheggiato, ambito come il centro del mondo ed anche come il centro di questa commedia (nonché oramai protagonista di molte altre pellicole), la quale scaturisce da esso, vive di esso e se ne occupa per 97 minuti. Il pretesto è che ad una cena un gruppo di amici (tre coppie ed un divorziato) stringe il patto di rendere pubblici e visibili messaggi o telefonate che arriveranno nel corso della serata. Non ci vuole molto ad immaginare che la condivisione plenaria porterà alla guerra termonucleare, mettendo in crisi matrimoni, amicizie, biografie e trascinando nel fango tutti i grandi "perché" esistenziali. Naturalmente la sceneggiatura viviseziona la fauna con l'accetta, creando stereotipi perfettamente riconoscibili ed indossabili dallo spettatore, il quale non deve assolutamente imbrogliarsi o fare la minima fatica a decriptare alcunché (non sia mai....). Dunque abbiamo il coattone vago e inconcludente (Leo) con mogliettina fatata e naive, che ovviamente fa uno dei lavori più politically correct del mondo, la veterinaria (Rohrwacher), il chirurgo plastico (Giallini) che per contrappasso non può che essere sposato con una psicologa (Smutniak), dunque sacro e profano riuniti sotto lo stesso talamo. Poi l'impiegato sarcastico e malinconico (Mastrandera) con moglie complessata (Foglietta) ed un goffo orsacchiotto stralunato, insegnante di educazione fisica, perennemente precario e recentemente divenuto disoccupato (Battiston). La romanità regna sovrana, ad eccezione di Battiston, del resto nomen (anzi cognomen) omen.
Iniziano ad arrivare messaggini, fotine e telefonate e, come da programma, l'allegra serata conviviale scivola progressivamente verso il dramma, i tradimenti, gli altarini svelati, le malefatte incrociate. Tant'è che viene da chiedersi perché gli unici a non averlo previsto siano proprio i personaggi del film, collettori seriali di scheletri negli armadi. La sceneggiatura (scritta addirittura a 10 mani, manco fosse l'adattamento de I Fratelli Karamazov) suddivide tutto col bilancino, pertanto abbiamo 1 santo per parte, 2 maschi brutti e cattivi corroborati da altrettante donne traditrici, anche se c'è una minima scala di valori per la quale - si sa - l'uomo deve peggio figurare. Il sesso debole in fondo in fondo anche quando tradisce lo fa per un motivo profondo e financo comprensibile, l'uomo invece, infame e interiormente concavo, mente e cornifica per mera arroganza e superficialità. Va da sé che quindi i maschi della tavola siano più intrinsecamente e geneticamente merdine. Leo è indifendibile, la sua dolce metà pare piovuta dal cielo, una stella cadente, una ninfa dei boschi, soave e immacolata, la quint'essenza dell'idea platonica della purezza, un personaggio che si farebbe fatica anche a trovare credibile persino in un romanzo fantasy. Ma tant'è, Genovese ce la vende così. Mastrandrea parte stronzo, con la sua ironia sempre tagliente e affettatrice, ma poi ha un twist, si trova in una situazione nella quale - suo malgrado - si erge a difensore degli oppressi e dei discriminati. La Smutniak è insopportabile - naturalmente mi riferisco al personaggio, non all'attrice - francamente grottesca, una psicologa che vuole rifarsi le tette e che - quando viene usato contro di lei l'argomento che, data la professione, lei dovrebbe essere protetta dal richiamo della banale autogratificazione becera derivante dal farsi gonfiare i seni a misura Diletta Leotta - si giustifica con fare scomposto ed imbronciato, trasformandosi in una bambinetta viziata e capricciosa, perfettamente (in)coerente col suo personaggio. Poi c'è Marco Giallini, una specie di Gesù Cristo con la risposta più saggia di tutti sempre in bocca, l'uomo giusto al posto giusto che fa e dice sempre la cosa giusta. Quello di Giallini è un personaggio nietzschiano, siamo all'übermensch, Giallini è l'amico che tutti vorrebbero avere, il marito che tutte vorrebbero avere, l'uomo che tutti vorrebbero essere, il genitore che tutti vorrebbero avere avuto, una creatura di una perfezione asfissiante, e dunque non si spiega il trattamento che la Smutniak riserva ad un tale fenomeno trascendentale (o meglio, si spiega solo considerando che la Smutniak è la psicologa più squinternata e disagiata del pianeta). Infine abbiamo Battiston, sempre in bilico tra tenero peluche da stringere al petto e fragile essere umano dotato di compassione e buon senso, il che automaticamente lo rende gay perché, secondo la suddetta regola dei maschi alfa, maschio e umano sono due sostantivi che non possono coesistere reciprocamente.
Una volta che Genovese ha finito di giocare il suo giochino, attribuendo colpe e lacrime secondo lo schema precostituito della stereotipizzazione selvaggia, il nastro viene riavvolto e - SPOILER: fingiamo che tutto ciò che abbiamo visto non sia mai accaduto, perché troppo crudele. E indovinate un po' chi evita la tragedia? Bravi, Giallini. Egli è così saggio, così lungimirante, così buono, che capisce col dovuto anticipo dove saremmo andati a parare ed evita questa disfatta del genere umano, concedendo un po' di ossigeno ulteriore all'armata brancaleone di amici. Molto probabilmente qualcuno continuerà a perseverare diabolicamente nell'errore e nella menzogna, qualcun altro forse rinsavirà, Giallini non deve fare né un passo avanti né uno indietro perché è perfetto così. Tutto è bene quel che finisce bene, significati veri ce ne sono perché - al dunque - Genovese ci mostra solo un what if, senza farne scaturire alcunché se non un semplice sliding door immaginario. Manca il coraggio di andare fino in fondo, tirare le somme del discorso imbastito, ma al contempo si finge quel minimo cinismo da rendere la commedia sufficientemente "velenosa" da affrancarsi da tematiche sentimentali troppo melense e sdolcinate. Un film che non è niente se non una serie di dialoghi scanditi da frasi fatte, interpretazioni neanche malvagie da parte di attori neanche malvagi, assillati da personaggi di una pochezza e di una prevedibilità sconcertanti (Mastrandrea è fuori rosa, lui è un fuoriclasse ma purtroppo necessita di pagnotta a fine mese come tutti) ed una morale appiccicosa da baci perugina, consolatoria ed assolutoria, attentissima a non lasciare contrariato lo spettatore (pagante). Chiaramente, doppio David di Donatello, miglior film e sceneggiatura, oltre a svariate nomination.... avete presente Nanni Moretti in Bianca, quando scopre che esiste qualcuno che non ha mai assaggiato la Sachertorte?