Madame Claude

Madame Claude
Madame Claude

Nel 1977 Just Jaeckin, dopo due film epocali come Emmanuelle e Histoire D'O gira Madame Claude con Françoise Fabian nei panni della maitresse più celebre di Francia. La visione di Jaeckin non poteva che essere parziale, visto che Fernande Grudet (il vero nome di Madame Claude) è rimasta attiva fino agli anni '90 ed è venuta a mancare appena un lustro fa, nel 2015, alla veneranda età di 92 anni. Ad un certo punto per lei le cose si erano messe molto male intorno ai '70, quando i postumi della rivoluzione sessuale ed un livello troppo alto di intrecci con il potere politico e non solo avevano fatto vacillare l'impero della Signora, fino a costringerla a lasciare dapprima Parigi e poi a scappare negli Stati Uniti. Netflix, con l'apporto di Sylvie Verheyde alla regia, riprende il filo del film di Jaeckin, ripartendo da capo e portandolo fino a compimento ai giorni nostri, in una prospettiva diacronica. Stavolta è Karole Rocher ad avere il volto della severa e carismatica regina delle "puttane" (come lei stessa si definisce), attrice che ha già lavorato con la Verheyde in passato (ad esempio anche in Sex Doll, una storia affatto dissimile da quella di Madame Claude), dunque un connubio rodato ed empatico. Tuttavia proprio l'empatia è forse il tallone d'Achille di questa produzione. Il film adotta un punto di vista tutto al femminile, come era naturale che fosse, vista la vicenda, e talvolta lo ostenta anche in modo militante, quando ad esempio Madame Claude spiega alla sua delfina Sidonie (Garance Marillier) che il mondo è comandato dagli uomini e dunque la sua è stata una lotta personale di potere e di affermazione anche e soprattutto contro gli uomini. Lei ha fatto di sé stessa arma ed armatura, il suo corpo è diventato il mezzo per scalare la piramide sociale ed arrivare i soldi, i soldi sono stati la protezione, il passepartout per una posizione sicura e dominante, e per il benessere. Attraverso una voce off, quella della protagonista, togliamo di tanto in tanto qualche velo dalla biografia della donna, ne apprendiamo il passato difficile e modesto, gli abusi da parte dello zio, una maternità mai veramente voluta ed accettata, un pessimo rapporto con la madre, un rapporto se possibile peggiore con l'amore ed un desiderio sfrenato di conquista. Tutto ciò però lo recepiamo esclusivamente mediante frequenti spiegoni off, eccezion fatta per la figlia, che vediamo in carne ed ossa, e della quale possiamo tastare con mano la problematicità.

Madame Claude è un'opera estremamente concentrata sull'estetica, sullo zeitgeist di un'epoca, anzi "attraverso le epoche", dai tardi '60 fino ai tardi '70; quello è il cuore di tutto, perché poi il procedere del calendario è funzionale esclusivamente al mostrare un po' cronachisticamente (e sbrigativamente) cosa accade a Madame Claude "dopo" e come si conclude la sua parabola. La Verheyde insiste spesso e volentieri sui primi piani (della Marillier), sui silenzi, sugli sguardi, sui dettagli anatomici, su scorci di lingerie o amabili scenografie d'interni. Fraseggia con aspetti decorativi, ornamentali, certamente utilissimi a dar corpo ad un'atmosfera, ad una cornice, ad un "sentiment", ma talvolta si avverte la mancanza di una sostanza che dia senso e direzione alla forma. Non si riesce ad empatizzare né con la protagonista né con le sue ragazze, men che mai con i personaggi maschili del film, praticamente tutti assai negativi e spregevoli. Criminali nella migliore delle ipotesi, poliziotti corrotti, spie bastarde, amanti ipocriti o genitori stupratori nella peggiore. Non c'è salvezza per le donne, né c'è umanità a giudicare dalla galleria di personaggi che ci propone la Verheyde (anche se immagino che pure il corollario che ne scaturisce è che la colpa di tale aridità di sentimenti muliebri sia a sua volta da addebitare agli uomini).

Madame Claude è un film molto gradevole esteticamente, elegante, raffinato, sottile (se si parla di immagini) ma - a mio modesto parere - risulta troppo poco incisivo. Il personaggio di Madame Claude finisce con l'essere bidimensionale; ci sporgiamo sul bordo del precipizio della sua sofferenza, della sua crepa interiore ma non approfondiamo mai veramente, la Verheyde ci lascia in superficie. Forse quei grandi scatti d'ira che la caratterizzano servono a descrivere e particolareggiare, ma lo spettatore fa comunque fatica ad entrare dentro il personaggio. Va leggermente meglio con Sidonie, ma qualcosa lungo il film continua a girare a vuoto. Tanti anni concentrati in meno di due ore perdono giocoforza dei pezzi per strada, lasciano sottotrame aperte o intentate e ci scaraventano alla fine dell'epopea di Madame Claude con la sensazione di aver sì terminato il puzzle ma avendo lasciato alcune tessere nella scatola.

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