
Roberto Andò è uno che si va a prendere sempre film difficilissimi, sceneggiature complicate, a volte "pericolose", si assume rischi ma non rinuncia a fare e girare i film che vuole ed in cui crede. Lo dimostra anche La Stranezza, nonostante in realtà il botteghino almeno stavolta pare gli stia dando ragione, eleggendo la pellicola a titolo più visto del momento e chissà, forse dell'anno (ma mancano ancora le mefitiche uscite natalizie con le quali il cinema italiano dà storicamente il proprio peggio). Andò porta il pubblico in sala per vedere Pirandello, figuriamoci; non un film tratto da un'opera di Pirandello bensì un film su Pirandello che partorisce faticosamente un'opera e la porta a teatro. Cinema di metaletteratura, o metacinema di letteratura, come preferite. Il volto ed il corpo di Pirandello sono affidati ad un eccellente (come sempre) Toni Servillo, flemmatico, silenzioso, osservatore e inquieto, mentre scende da Roma alla Sicilia per omaggiare Giovanni Verga nel giorno del suo compleanno e rimane contemporaneamente invischiato in una serie di situazioni, a cominciare dalla morte della propria badante d'infanzia (oramai 102enne) fino alla messa in scena di una tragicommedia da parte di aspiranti teatranti locali (di professione becchini).
Mentre Pirandello riassapora la Sicilia, con tutte le sue contraddizioni ed i suoi anacronismi, è ossessionato dal concepimento di Sei Personaggi In Cerca di Autore, dibatte fisicamente con le proprie creazioni letterarie che dalla carta prendono corpo e lo assediano, soprattutto nei momenti di calma e stasi notturna. Il piano della realtà e della fantasia si sovrappongono ed è chiaro che questa contaminazione non è affatto a costo zero per Pirandello, che ne porta il peso, ulteriormente aggravato dal fardello del dolore della condizione della moglie, malata di mente. Quello che oggi si chiamerebbe "feedback" nei confronti dello scrittore è duplice, chi lo osanna e lo definisce genio, chi lo denigra e lo ritiene un buffone, appare chiaro alla prima romana dell'opera (che pure entro lo stesso anno del debutto, come si affretta a dirci una didascalia, diventò un successo mondiale e fece guadagnare a Pirandello il Nobel per la letteratura). Servillo si relaziona a tutta una serie di personaggi, figurine e caratteristi, senza che allo spettatore sia chiaro se si tratti di proiezioni mentali o vere e proprie persone. In special modo i due becchini, interpretati da Ficarra e Picone (già sufficientemente disneyani in quanto Ficarra e Picone). Andò molto intelligentemente li tiene a freno, non allenta il guinzaglio, perché d'accordo che l'eventuale assegnazione al mondo onirico ne giustificherebbe certi estremi ma il troppo stroppia, e un surplus di istrionismo sarebbe inevitabilmente finito a detrimento della pellicola, appesantendola oltremodo. Ma garbo e misura sono proprio il tratto distintivo del regista, la sua impronta su questo film. Molto bella la fotografia di Maurizio Calvesi che ci restituisce una Sicilia un po' da cartolina ma piena di fascino. Eccellenti le musiche di Michele Braga ed Emanuele Bossi che commentano a dovere l'atmosfera sospesa tra il tragico ed il comico del film. Mi ha particolarmente impressionato il Verga di Renato Carpentieri, me lo sarei immaginato esattamente così. Nulla da eccepire su Servillo, attore di razza, anche se quella percepibile cadenza partenopea nel parlato in qualche misura stona un po' col personaggio ed il contesto. Un appunto: possibile che il cinema italiano non possa realizzare delle locandine meno banali e didascaliche?