Ideale seguito di I Miei Primi Quarant'Anni (1987), tanto nella realtà editoriale quanto in quella cinematografica, la nuova pellicola che vede protagonista Carol Alt(er) ego di Marina Ripa di Meana, segue di due anni la precedente ed è affidata, ahimé, non più alle cure dei Vanzina bensì a Cesare Ferrario. Cresciuto a colpi di Strehler, Brecht, Mahler e Shakespeare, realizza in tutto tre film come regista, Il Mostro Di Firenze, La Più Bella Del Reame e La Bella Di Mosca (dal '90 viaggia frequentemente in Bielorussia, collabora con lo scrittore Viktor Erofeev e dirige opere liriche). Pochi titoli ma d'impatto, soprattutto a livello mediatico, in particolare i primi due. Liberamente ispirato al libro della contessa più hot della Milano da bere, questo nuovo capitolo delle sue avventure ha pochissimo in comune con la pellicola firmata dai Vanzina, se non - giocoforza - la protagonista. E' sempre Carol Alt a vestirne i panni (che proprio grazie ai Vanzina viene "sdoganata" nel cinema italiano).
A Deauville, Bassa Normandia francese, Marina trascorre del tempo intenta a scrivere il suo nuovo romanzo. Come lei, nella grigia desolazione di una stagione senza turisti, anche un ex diplomatico inglese, Jeremy, si annoia in albergo. I due fanno amicizia. Lui è gay e prende Marina come propria confidente. Allo stesso modo lei testa sul suo interlocutore i vari capitoli della sua vita e, conseguentemente, del libro che sta scrivendo. Anche lo spettatore assiste così alle varie peripezie, sempre pruriginose, della contessina. Quando si dedica all'amore saffico, quando manda a quel paese un playboy da discoteca con sonanti calci nelle parti basse, quando le amiche le fanno trovare in piscina un figaccione impacchettato di tutto punto (al quale lei nemmeno chiede il nome ma gli salta immantinente addosso come una sanguisuga) e via discorrendo, sempre e soltanto ponendo l'accento su biancheria intima, nudità e copule. Questi flashback vengono intervallati da lunghe chiacchierate di Marina con Jeremy e/o con una giornalista devota, che la segue ovunque per un'intervista agiografica. Quando il depressissimo inglese tenta il suicidio per pene d'amore, Marina decide di tornare a Milano dal marito, convinta di aver sbagliato tutto nel suo approccio effimero ed edonistico alla vita. Prova ne sia che in treno conosce l'ennesimo giovanotto allupato, arriva ad un passo dal concederglisi ma poi lo lascia con un pugno di mosche. Marina si sente diversa, cambiata. Per cinque minuti, tempo di essere invitata ad una festa dalla sua migliore amica (una Mirella Banti in versione mignottone ninfomane), alla quale si recherà in tiro come al solito (addirittura vestita da pavone, a rimarcare l'autocompiacimento di una bellezza tutta esteriore).
Il film di Ferrario si rivela estremamente più pesante e scialbo di quello frizzantino dei Vanzina. A parità di fuffa e aria fritta (inevitabili dato il personaggio principale), La Più Bella Del Reame fallisce su tutta la linea. La sceneggiatura è noiosa, i dialoghi prolissi e pretenziosi, le situazioni piccanti sono patinate e annacquatissime, gli attori sono fuori parte (Sergio Vastano) o senza voglia (Jon Finch, uno che aveva lavorato con Polanski, Schlesinger, Hitchcock e Vadim), e anche la bella Carol Alt non ha molto da offrire. Va detto che la modella americana è sempre stata un po' un grande equivoco per il mondo del cinema (italiano). Bellissima ma non granché espressiva o in grado di reggere ruoli troppo profondi, è stata vieppiù coinvolta in pellicole che contemplavano anche accenti drammatici, con risultati zoppicanti. Se i Vanzina riuscivano a far diventare questo limite una specie di virtù, calandola in un contesto adeguato (ed avendo mestiere da vendere), Ferrario non è minimamente sfiorato dalla sua pochezza, rimanendo abbagliato evidentemente dalle sue mise in lingerie, vero punto forte del film, assieme al make-up sempre vistoso e ai siparietti della Banti, altro valore aggiunto della pellicola (scena cult, le voglie notturne sul tavolo da biliardo).
La colonna sonora (sempre a cura di Umberto Smaila), che nel primo film aggiungeva spezie, qui è anonima, e pure il totale sradicamento dalla realtà cronachistica italiana va a sfavore dell'operazione di Ferrario. Questa Ripa Di Meana è un personaggio di fantasia, una novella Emanuelle (con una M sola, quindi da intendersi maccheronicamente alla Joe D'Amato, non alla Arsan) che dovrebbe affascinare il suo pubblico con racconti se non esotici perlomeno peccaminosi e invece, tolta dalla cerchia dei politici, degli imprenditori, degli sportivi e degli uomini di potere della scena italiana - c'è giusto un tocco internazionale con il Principe Carlo d'Inghilterra, ritratto molto goffamente, e con una Lady D inquartata che pare una macellaia der Tufello - non rende più nulla, deprivata del suo unico elemento potenziale di attrazione, l'indovina chi. Un'occasione persa insomma. Ne emerge una Marina Ripa di Meana antipatica, stupidella, vuota, sempre intenta a rimirarsi allo specchio, cinica (attinente o meno all'originale), con cui lo spettatore non può identificarsi né empatizzare in alcun modo. Da segnalare anche la presenza di Nina Soldano, cameriera ninfa e un po' zoccola della contessa.