
Chi se non un coraggioso (ed un talentuoso) cavallo di razza come Marco Bellocchio poteva assumersi la sfida di un film sulla storia di Tommaso Buscetta nel paese che lo ha mitizzato e poi demolito per propri vile e miserabili tornaconti interni? Chi poteva sfidare quell'Italia lì, mai battuta, mai domata, mai ritiratasi dal campo di battaglia, tutt'al più solo dai riflettori, per continuare ad operare nell'ombra, secondo interessi obliqui e pieni di sfumature? La grandezza di questo film sta nel non essere; non è un film di denuncia, non è un film che santifica Buscetta (restituito in tutta la sua drammatica ambiguità "shakespeariana"), né riversa melassa retorica su Falcone e lo "Stato", non è un film superficiale, non è un film didascalico, non è soprattutto un film inutile. 148 minuti di grandissimo mestiere ed esperienza, affrontati con una lucidità, una consapevolezza ed una cura oramai quasi senza paragoni nel cinema italiano contemporaneo. Bellocchio è un sopravvissuto di un'altra generazione che ha molto da insegnare ai cineasti odierni, ammesso che sappiano ascoltarlo e vogliano seguirlo sul suo terreno, mai in discesa, basti vedere i temi che sceglie per dirigere le sue storie (eutanasia, fascismo, brigatismo, clericalismo, etc). Il Traditore è un film politico senza essere militante, è un film civile senza essere enfatico, è un film che osserva la giusta distanza, è un'opera potente e incredibilmente godibile, nonostante la gravità dell'argomento e la lunghezza del minutaggio. Ed è anche una visione non priva di una certa ferocia. Pierfrancesco Favino ha quasi interamente la sceneggiatura sulle proprie spalle, certo una buona fetta di merito va anche a lui perché un lavoro del genere non sarebbe stato possibile senza il giusto attore, capace, volitivo e generoso.
Tutta la cornice dentro cui si muove il cast è eccellente, ambienti, location, scenografie, grande eleganza, respiro internazionale, facilitato da un ritmo perfetto, una sapiente fotografia, una ricostruzione che non è mai pedissequa e scolastica, si prende anche le sue libertà, ma evita di suscitare la sgradevole impressione della parodia o della copia carbone. Fausto Russo Alesi, per dire, assomiglia relativamente al giudice Falcone, come Pippo Di Marca è un Andreotti abbastanza improbabile, ma questo è assolutamente preferibile a due imitatori in stile Bagaglino che avrebbero finito col togliere autonomia e indipendenza al film, piegandolo alla legge della somiglianza a tutti i costi. Bellocchio non rinuncia a certi suoi nervosismi, ad alcuni momenti di vitalismo ed intensità (assolutamente funzionali alla storia), come ad esempio le brevi scene di sesso, e persino a qualche lentezza riflessiva; tutto sommato sono e rimangono la cifra del suo cinema, amalgamato in talmente tante livree da renderlo peculiare e sempre riconoscibile. Lo spettatore non riesce ad immedesimarsi con Buscetta, può parzialmente empatizzare con la sua figura ma Bellocchio sta molto attento a mostrare sempre il lato oscuro della Luna, scegliendo di non militare in qualche schieramento ma onorare la cronaca dei fatti, per come si sono svolti.
Molto affascinanti i momenti onirici nei quali Buscetta rivive continuamente le morti dei familiari perpetrate dalla furia corleonese di Totò Riina. Parentesi sinistre, lampi da un'oltretomba spaventoso e visionario. Così come la metafora più volte riproposta degli animali in gabbia è estremamente calzante e suggestiva. Sincero e commovente il suo pianto tardivo per la perdita dei figli, intimo e complice il rapporto con la sua ultima moglie brasiliana (Maria Fernanda Cândido), oscuro e limaccioso il finale che lo vede unico artefice di se stesso e del suo destino (una delle cose più belle ed intelligenti del film). Estremamente inquietante la figura del boss di Corleone (interpretato da Nicola Cali), ritratto in un quasi autismo destabilizzante. Le scene del maxiprocesso nell'aula bunker sono quasi uno spettacolo (teatrale) dentro lo spettacolo, una grande rappresentazione del Male e del Caos, puntellata da maschere demoniache, alla quale i magistrati di volta in volta cercano di dare ordine e rigore. Notevolissima la piccola parte affidata a Bebo Storti, avvocato difensore di Andreotti; quello di Storti è un ruolo difficile e crudele (l'avvocato del diavolo), incarna lo Stato traditore e meschino che si incarica di screditare Buscetta umiliando al contempo la memoria ed il lavoro di Falcone e Borsellino, e dei tanti magistrati e poliziotti che hanno combattuto quella battaglia fino a donare la propria stessa vita. Impressionante la scena del cosiddetto "attentatuni", resa con una violenza ed una verosimiglianza da far impallidire il cinema americano degli effetti speciali milionari.