Quattordicesimo lungometraggio di Nanni Moretti un po' ripiegato su se stesso, non che abitualmente il cinema di Moretti non sia autoreferenziale e forse anche un po' autoindulgente - è indubbiamente la sua cifra - ma certamente Il Sol Dell'Avvenire pare quasi un testamento sebbene io mi auguri che Moretti abbia ancora tante altre pellicole davanti a sé. Un po' lascia interdetti la sua recitazione, particolarmente affaticata. Non so se solo io ho avuto questa impressione ma Moretti parla molto lentamente, troppo lentamente, come dovesse scandire ogni singola lettera delle parole ed alterna questo ritmo flemmatico ad espressioni continuamente ricchi di stupore, enfasi, come se dovesse sottolineare ogni battuta. Mi è tornato in mente il Francesco Nuti di Concorso Di Colpa e spero francamente che non sia quella la situazione. A tratti si sconfina nella parodia più o meno volontaria dello stereotipo del suo classico personaggio egocentrico, volubile, infantile, puro ma al contempo capriccioso. Gli attori intorno a Moretti vanno ad un'altra velocità e quando lui entra in campo, cioè sempre, il fotogramma rallenta ed è come se si aprisse una parentesi rispetto a tutto il resto. Un effetto straniante, magari voluto da Moretti ma che a conti fatti un po' appesantisce la visione. Quanto appena detto contrasta con i momenti di voluto parossismo del suo Giovanni, ad esempio quando canta Aretha Franklin in auto con la Buy, quando coinvolge tutto il set a ballare un immaginario Battiato, quando affronta i colletti bianchi di Netflix che parlano una lingua lontana anni luce dal "dinosauro" Moretti, o quando dialoga con la figlia a proposito degli psicofarmaci e delle creme per il viso. Classiche situazioni comiche "alla Moretti", un po' stralunate ma stavolta si avverte una certa artificiosità di fondo.
Il Sol Dell'Avvenire intreccia un film nel film, quello che Giovanni sta girando sulla rivoluzione Ungherese del '56, quello di Moretti per il suo pubblico, ma a questi due si aggiunge una terza storia che è quella personale di Giovanni/Nanni, la sua gioventù perduta, la sua strabordante nostalgia malinconica che lo riporta a quando la storia d'amore con Paola/Margherita Buy stava sbocciando. Una bulimia di autoreferenzialità che si sublima nel citazionismo sfrenato di tanto cinema caro a Moretti, da Cassavetes a Kieslowski, da Fellini a Jacques Demy, dai fratelli Taviani ai Blues Brothers di John Landis. Apprendiamo persino che Nanni si appresta a girare un'ulteriore pellicola, un rifacimento di Un Uomo A Nudo di Frank Perry, bellissimo e complesso film del 1968 con Burt Lancaster. Moretti cita gli altri ma cita anche se stesso, con veri e propri feticci sparsi lungo la sua filmografia come le scarpe (i sabot), il nuoto, il pallone, la copertina (di Linus), piazza Mazzini a Roma. Il finale felliniano poi raggruppa addirittura i tanti attori con i quali ha lavorato, tra i quali manca Laura Morante che ha polemicamente rifiutato l'invito a partecipare per i non idilliaci rapporti lavorativi avuti con Moretti.
Un po' estenuante la scena riguardante la violenza nel cinema, con tanto di cameo di lusso come quelli di Renzo Piano e Corrado Augias, dove Moretti tratteggia la sua precisa filosofia al riguardo. Mentre la guardavo pensavo al cinema di Tarantino e riflettevo su come la sua intera filmografia dovesse essere espunta tout court dagli albi cinefili per impraticabilità secondo Moretti. Cita pure Scorsese che con molte sue pellicole sarebbe a forte rischio. Nanni porta avanti un discorso eticamente molto nobile ma anche molto ideale, ancorato sulle nuvole di una utopistica umanità idilliaca che non esiste nella prosaica realtà delle cose, il che tuttavia è perfettamente coerente con il finale del film, anzi dei film, tanto quello di Giovanni quanto quello di Nanni. Giovanni rinuncia al suicidio del protagonista (Silvio Orlando) e immagina un "what if" solare e positivo nel quale il Partito Comunista Italiano si sgancia dall'influenza sovietica trasformandosi in una eresia positiva che persegue il benessere e la felicità delle persone, così come Nanni sembra voler chiudere il suo Sol Dell'Avvenire in pieno sole appunto, dopo le tante ombrosità respirate per i 95 minuti di pellicola. Un lavoro all'insegna della speranza, afflato che non sempre è stato presente nel cinema morettiano, anzi assai poco, è questa è una novità.