
Terza regia per Claudio Amendola e distribuzione in streaming sulla piattaforma Prime Video per questo film che Amendola ambienta a Roma naturalmente (o perlomeno, l'accento romanesco va per la maggiore), una storia nata da un soggetto suo e di Francesca Neri, materializzatosi durante delle chiacchierate familiari. Tutto verte su di un'impresa funebre di stampo familiare, i Pasti, in perenne concorrenza con i Taffo (quelli veri per altro, anche se il patron è interpretato da un Massimo D'Apporto impiegato appositamente per il breve cameo); il mondo delle onoranze funebri è spietato, concorrenziale, insensibile per definizione, i soldi si fanno con i morti. Ci sarebbe modo e modo, ma Amendola intende dirci che i suoi personaggi non sono di quelli esattamente rosi da mille scrupoli. Per una buona metà il film va così, i quattro Pasti ovvero Massimo Ghini, Gian Marco Tognazzi, Lucia Ocone e Alessandro Sperduti, ognuno con le sue rispettive competenze - amministratore, curatore estetico dei cadaveri, addetta alle pubblica relazioni (soprattutto maschili) e Social Media manager - mandano avanti l'azienda non facendosi sfuggire un'occasione e dimostrandosi disposti a tutto, secondo gli insegnamenti del defunto padre (Edoardo De Leo), naturalmente imbroglione, corruttore, evasore e sciupafemmine. C'è pure la madre, Giuliana Lojodice, fuori dalle dinamiche aziendali ma anche lei alquanto egocentrica ed egoista (ha avuto ogni figlio con un amante diverso).
Amendola ha detto, e quasi ogni recensione ha rilanciato, che l'orizzonte di un film come I Cassamortari sarebbe la commedia all'italiana degli anni d'oro, quella dei Germi e dei Monicelli, dove si rideva con cattiveria, con cinismo, senza guardare in faccia a nessuno, esasperando i difetti italici e mettendoli alla berlina con scarsa voglia di comprenderli e giustificarli. Amendola insomma voleva fare un film cattivo nel quale, al di là dell'umorismo, i suoi personaggi fossero dei campioni negativi. Purtroppo non accade, i fratelli Pasti sono tutto sommato dei bonaccioni, Amendola è perennemente indeciso se pigiare sul pedale dell'acceleratore o su quello del freno. La risultante di questa direzione ondivaga è il continuo andirivieni "morale" dei vari Ocone, Tognazzi, ma anche degli altri comprimari che interagiscono con loro nel film. Un passo avanti ed uno indietro, sempre con la paura di essere troppo cattivi, davvero cattivi, spietati fino in fondo. C'è un evidente fondo di buonismo che Amendola non riesce a sopprimere, emerge prepotente e dilaga nell'ultima frazione di film. Lo spettatore smette di crederci dopo pochi minuti, Amendola non sarà Monicelli, non solo tecnicamente o artisticamente, ma "spiritualmente", non c'è quel nichilismo, quella rassegnazione, quella rabbia. Amendola ama i suoi personaggi e vuole salvarli, tutti, dal primo all'ultimo. In questo I Cassamortari è decisamente spuntato.
Sul versante comico, tranne qualche buon colpo piazzato dalla Ocone, che è un portento ma deve essere incanalata da una buona sceneggiatura, non è che ci si ammazzi esattamente dalle risate. Il personaggio di Tognazzi è un vorrei ma non posso, eccentrico e bizzarro ma in modo un po' amorfo, senza che quella caratterizzazione porti in realtà da qualche parte. Buone idee ma sviluppate senza un fuoco preciso. Ghini fa Ghini, il solito piacione. Poi c'è Piero Pelù, pure lui chiamato ovviamente per fare Pelù, dunque istrionico ed incontenibile, ma tutto sommato si mette generosamente al servizio del film. Fiero di aver potuto contribuire ad un'opera "coraggiosa" che rema contro il politicamente corretto. Proposito nobile ma che francamente non sento affatto di poter condividere (negli esiti perlomeno). Molto modestamente, a me I Cassamortari pare invece un'occasione mancata; sulla carta dovevano esserci fiumi di umor nero e cattiveria ma, tutto sommato, se i quattro Pasti anziché seppellire i morti avessero avuto una pescheria non credo ne sarebbe uscito un racconto diametralmente diverso, al netto delle situazioni mortuarie. Pare che ad Amendola, più o meno consapevolmente, interessino le dinamiche interpersonali e familiari tra i quattro più che il contesto nel quale interagiscono, e pare anche che in fondo tanto "marciume" iniziale sia poi il propellente per una gran corsa al "volemosebbene". Carino però il finale, l'ultima scena intendo, nella quale Amendola dimostra un discreto senso dell'(auto)ironia, peccato siano davvero solo gli ultimissimi fotogrammi.