Diabolik

Diabolik
Diabolik

E' arcinoto ai più il precedente di Mario Bava del 1968 sul celebre eroe nero dei fumetti creato dalle intraprendenti sorelle Giussani (nel 1962), l'unico precedente per altro. Data la fama e l'affetto del pubblico nei confronti di Diabolik, personaggio oggi forse un po' demodé - travolto da manga e tutine Marvel e DC Comics - ma sempre in auge, una nuova trasposizione cinematografica è stata una piccola bomba mediatica, tanto più che a curarla sono arrivati in soccorso addirittura i Manetti Bros., re Mida del "nuovo cinema di genere" italiano, scelti dal direttore della Astorina in persona, Mario Gomboli, editore di Diabolik. Voglio un mondo di bene ai Manetti, si sono presi una fetta di pubblico e di cinema che in Italia semplicemente non esisteva più, qualcuno li definisce sbrigativamente i Tarantino italiani, sta di fatto che al cinema come in tv (con la serie di Coliandro e non solo), hanno ampiamente dimostrato di meritare ogni buona parola spesa per loro da 20 anni a questa parte (a partire da Zora La Vampira). Per quanto mi riguarda insomma le ottime premesse per gustarmi in sala questo film c'erano tutte. Le critiche lette (cercando di scansare gli spoiler) sono state quasi tutte positive, qua e là entusiastiche, quindi mi ha davvero sorpreso essermi ritrovato nella metà campo degli insoddisfatti di Diabolik. Durante la visione mi sono costantemente dovuto ripetere di essere al cospetto della traduzione in fotogrammi di un fumetto per giustificare il disappunto. Intendo, d'accordo, stiamo parlando di un fumetto, quindi eccessi, (in)verosimiglianza, bizzarrie, attinenza alla realtà, al possibile, al credibile, al logico ed al razionale beneficiavano di una certa elasticità, ma ugualmente ho trovato che i Manetti abbiano peccato di un eccesso di confidenza, dando per scontato troppo, per il solo fatto di avere come paracadute la genesi "fumettistica" della sceneggiatura.

La recitazione è stata forse - per me - lo scoglio più complicato da superare. Miriam Leone è splendida e graficamente incarna la Eva Kant più ficcante possibile, tuttavia la sua interpretazione è sempre e solo sopra le righe. Ogni frase, ogni sguardo, ogni inquadratura che la contiene e la accarezza è un tripudio di ammiccamenti, malizie, sottintesi, Eva Kant è in modalità "seduzione" 24 ore su 24, non sai mai se un minuto dopo si distenderà sul letto fasciata di trasparenze vedo-non-vedo aspettandosi di essere baciata, oppure se vorrà essere condotta nel caveau di una banca svizzera, ma comunque te lo chiederà nello stesso identico modo, con occhi da cerbiatta, sguardo penetrante, scollatura profonda e silenzi densi come piombo. Non c'è la minima sfumatura diversa, la caratterizzazione del personaggio è sempre identica; una specie di Bond girl al negativo in servizio permanente effettivo. Luca Marinelli (in accordo con i Manetti presumo) ha optato per una chiave interpretativa tutta votata alla fissità lignea; una rigidità che immagino dovesse trasmettere l'enigmatica, algida ed impenetrabile cifra di Diabolik ma che è talmente accentuata da rasentare l'autismo. Il tono ieratico con cui Marinelli recita ogni sua lapidaria battuta è disagevole per lo spettatore, si vorrebbe quasi porgergli la successiva per cercare di scioglierlo da quel torpore alienante. Abbastanza incomprensibile anche il rapporto con la moglie Elisabeth/Serena Rossi, una pezza da piedi inspiegabilmente innamoratissima di un anaffettivo dallo sguardo severo, allucinato e minaccioso. Va leggermente meglio con Valerio Mastrandrea/Ginko, tuttavia il suo ispettore è sempre in bilico tra acume e goffaggine. Ginko è sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato, non afferra mai completamente la situazione, finendo con l'essere il babbeo eternamente inconsapevole. Non aiutano i tremendi toupet messi in testa tanto a Mastrandrea quanto a Marinelli, finti e posticci. Ma questo mi porta diretto ad un'altra considerazione che riguarda l'uso di attori celebri. Benché i Manetti si siano affidati a compagni di viaggio di loro fiducia, il ricorso ad attori così famosi ed importanti ha tolto qualcosa ai personaggi. Non sono praticamente mai riuscito a vedere Mastrandrea come Ginko e non come Mastrandrea, o la Leone come Eva, idem Marinelli come Diabolik. A mio gusto sarebbe stato preferibile affidarsi a volti meno noti per far vivere in maniera più autentica e sentita i personaggi delle Giussani, senza nulla togliere al grande e comprovato mestiere del cast (un po' come fece Richard Donner quando scelse lo sconosciuto Christopeher Reeve per Superman anziché Dustin Hoffman o Al Pacino). C'è persino il cameo della Gerini (che si produce in un improbabile accento grottesco) nella parte di un personaggio che di fatto non esiste.

Mi si dirà certamente che tutto quanto scritto sin qui non tiene adeguatamente conto della derivazione del film, ovvero un fumetto, ma inizio a temere che questo "alibi" venga servito come antipasto, primo, secondo, contorno e dolce per tappare ogni falla. Non so voi, ma quando nottetempo Diabolik sfreccia in Jaguar per le vie di Clerville (Bologna) serenamente inguainato nella sua tutina, si è affacciato il diavoletto rosso del ridicolo sulla mia spalla sinistra (su quella destra c'era l'angelo che mi implorava: "è un fumetto!"). Dopo aver sottratto importanti documenti dall'ufficio del viceministro della Giustizia, Diabolik esce dall'edificio per infilarsi nell'auto; mentre la Polizia è già sul posto è perquisisce i locali, Diabolik dentro l'auto - in mezzo alla gente, in pieno giorno - si toglie con tutta calma la maschera da ministro e intima ad Eva di mettere in moto rapidamente; Eva gli rivolge (per l'ennesima volta) il più seducente e compiaciuto degli sguardi, poi accende il motore e si allontana a 20 all'ora. Una scena pazzescamente ridicola. Ma ce ne sono tanti di esempi così. Eva che si toglie la maschera e sotto porta lo chignon (ovviamente perfettamente integro, come appena scolpito dal coiffeur), Eva che accorre al rifugio (sia lei che Diabolik sono due latitanti conclamati a quell'altezza della storia) e lascia la porta d'entrata spalancata, a favore di piano sequenza. Poi c'è la scena dell'armadio nella camera del Grand Hotel Excelsior... insomma, accade con troppa frequenza che sotto la coperta del "fumetto" il film abbia totalmente trascurato e/o minimizzato la necessità di verosimiglianza di ciò che veniva mostrato. Sono disposto a crederti e a sospendere la richiesta di rigorosa accuratezza, ma sovvertire buon senso e spaziotempo va davvero oltre.

Amarissima ciliegina sulla torta è la theme song cantata da Manuel Agnelli, per me una nemesi da orticaria, ma mi rendo conto che questo sia un incaglio del tutto personale che non può essere addebitato al film nella bilancia dei più e dei meno. Rimane comunque agli atti l'estrema maestria dei Manetti, il loro gusto estetico, la loro audacia nell'essersi fatti carico di dirigere un Diabolik, la simpatia degli attori (cosa sideralmente distante dall'empatia trasmessa dai loro personaggi), la trasformazione di Bologna, Milano, Trieste in perfette location per un mondo fantastico di fine anni '60, le musiche sempre belle e calzanti di Pivio e Aldo De Scalzi. 133 minuti mi sono sembrati oggettivamente troppi, soprattutto considerando i difetti che imputo al film; si sarebbe potuto snellire e sfrondare, ad esempio evitando di insistere con alcuni flashback spiegoni, con alcuni dialoghi effimeri e con qualche lungagnata di troppo (come l'ultima scena). Pare sia ineluttabile un sequel (senza Marinelli però). Se da una parte mi auguro che sia un'occasione per migliorare il migliorabile, dall'altra mi chiedo perché non sia quasi più possibile concepire un'opera autonoma, indipendente, autoconclusiva, senza agitare lo spettro della serialità. Agli spettatori di Netflix l'ardua sentenza.

Trailer ufficiale

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