Ho aspettato un bel po' prima di vedere questo Blonde, vuoi per la sua importante durata (non è sempre facile ricavarsi 166 minuti di calma e concentrazione per vedere ed ascoltare una storia), vuoi perché da tutto ciò che era emerso durante la lavorazione e nelle immediate settimane dopo la sua comparsa su Netflix, mi ero fatto l'idea che sarebbe stata (almeno per me) una visione travagliata ed affatto indolore. E puntualmente così è stato. Il film di Andrew Dominik (liberamente tratto dal romanzo di Joyce Carol Oates del 1999, a sua volta liberamente ispirato alla vita di Marilyn Monroe), prodotto tra gli altri anche da Brad Pitt, non è un biopic banale, è innanzitutto un prodotto d'autore, lo si vede per la forma prima ancora che per il contenuto. Nelle sue quasi tre ore di durata Blonde usa tanti registri cromatici, a cominciare dalla contrapposizione tra colore e bianco e nero; ci sono parentesi oniriche, grandangoli, primissimi piani, riprese fuori fuoco e sfumate, Dominik insomma fa largo uso di registri tecnici atti a trasmettere stati d'animo e bruschi cambiamenti d'atmosfera. Non c'è nulla di anonimo o convenzionale nell'uso che il regista fa della MdP, anche il semplice attraversamento di un corridoio d'aereo da parte di Marilyn si trasforma in una passerella (immaginaria) di stampa e fotografi per poi ricomporsi nuovamente nella realtà di una normale fusoliera di aereo. La musica (di Nick Cave e Warren Ellis) è abbastanza impressionante, decisamente poco convenzionale e senza dubbio suggestiva, emozionante, non sempre in positivo (in accordo con le immagini). Ana De Amas è bravissima, molto credibile, dà una prova di solidità attoriale magnifica in una parte che definire insidiosa è un eufemismo. Dovendo giudicare tecnicamente la sua performance il voto è massimo.
Cosa c'è allora che non va in Blonde? Di fatto nulla, sta alla sensibilità dello spettatore coglierne o meno la gradevolezza. Io mi sono trovato in forte difficoltà. A me Blonde è sembrata pornografia del dolore, un ritratto tenacemente a tema, abbastanza autocompiaciuto nell'ostentare una certa crudeltà, un manifesto del disagio pensato e pesato scientificamente in ogni suo minimo dettaglio per mettere in forti ambasce lo spettatore fino quasi a farlo sentire colpevole. Non si riesce ad empatizzare con Marilyn, vorresti quasi scusarti per aver fatto parte di quel pubblico adorante che, in qualche misura, ha avuto un ruolo nella sua distruzione umana e psicologica. E' evidente quanto Dominik intenda rifuggire dalla rappresentazione classica del biopic edulcorato e celebrativo, segnatamente di un personaggio complesso e sfaccettato come la Monroe. L'ideale della bambola bionda sempre felice, sorridente, spensierata e disposta all'amore viene demolito con il suo esatto opposto e contrario; vediamo messo in scena il negativo di quella fotografia, ovvero una Norma Jean Baker straziata, abusata, manipolata, calpestata, stropicciata, annientata. Ininterrottamente, per 166 infiniti minuti. L'unico vero attimo di gioia risiede nel matrimonio con Henry Miller (interpretato da Adrien Brody), che tuttavia naufraga presto e sostanzialmente senza un perché (adeguatamente spiegato nel film). Ho letto grandi lodi relative al fatto che Blonde sarebbe un film autenticamente femminista e sinceramente non ne ho capito la ragione. Perché ogni singolo personaggio maschile nel film è un mostro? E questa la sottile disamina del mondo vissuto da Marilyn nei suoi 36 anni di vita? Perché tutto ciò che le è accaduto è stata colpa di uomini? A tal proposito ho trovato illuminanti le parole di un'attrice, Francesca Petretto, pubblicate sul Fatto Quotidiano del 3 ottobre scorso e che riporto volentieri:
"[...] dopo tre ore di film in cui non si vede altro che una donna distrutta e completamente in balìa degli eventi viene da domandarsi come diavolo abbia fatto a diventare la donna più acclamata, desiderata e imitata del mondo intero. Norma Jane non era Marilyn Monroe, questo è il leit-motiv del film. Ma è davvero così? Senza Norma Jane, senza la sua disperata voglia di riscatto, senza quel desiderio di dimostrare che dietro quell’immagine da calendar girl c’era molto di più, non sarebbe mai esistita Marilyn Monroe. Nella Norma Jeane raccontata in Blonde, manca la consapevolezza che inevitabilmente questa donna aveva raggiunto, che viene sacrificata in nome di una inverosimile ingenuità verso il mondo intero, uno stupore continuo e poco credibile per ogni sgarbo e ogni sopruso subìto. Anche quando questi sono all’ordine del giorno".
Esattamente come risulta incredibile la figurina della Marilyn cinematografica, quintessenza della felicità e della realizzazione di sé (costata in realtà carissima alla Baker), risulta altrettanto forzata una ricostruzione che espunge sistematicamente qualunque attimo di felicità, soddisfazione e soprattutto autoconsapevolezza nella sua esistenza, trasformata unicamente in una disfatta continua, gravosa, totale, olimpionica, sempre e soltanto subita. Raggiungere i 36 anni in quelle condizioni sarebbe stato impensabile, viene da chiedersi perché non sia crollata almeno 10 anni prima. Così come pare insanabile la dicotomia tra Marilyn e Norma Jean, ai limiti della schizofrenia. Per quanto toccante e ben confezionato, il film di Dominik si fonda su di un assunto precostituito che non ammette deroghe né sfumature e che, così facendo, risulta a tratti indigeribile.