007 – Zona Pericolo

007 – Zona Pericolo
007 – Zona Pericolo

E' venne il giorno dell'abbandono di Roger Moore (quello definitivo, perché ci si era baloccato più di una volta con "lascio o non lascio"). Dopo 7 film ed evidenti limiti di età, Moore cede il passo, senza che per altro nessuno glielo avesse formalmente chiesto. Il producer Broccoli accetta la scelta, rende l'onore delle armi al più longevo interprete di Bond e si mette freneticamente alla ricerca del successore. Ridda di nomi, Pierce Brosnan (impegnato nella serie tv Remington Steele, Broccoli ingaggia una battaglia legale con la NBC che va a finir male), Sam Neil (caldeggiatissimo da tutti tranne che da Broccoli, che è quello che ci mette i soldi), altri nomi minori, e alla fine la signora Broccoli tira fuori dal cilindro Timothy Dalton, un'idea che il marito accarezzava da un pezzo (il ruolo gli era già stato proposto all'abbandono di Connery). E' Dalton ha tirarla per le lunghe, non è convinto di accettare il ruolo, ma alla fine alza il telefono da una camera d'albergo di Miami è dice "ok, si fa". Dalton però non voleva essere una brutta copia di Moore, né quello era il desiderio di Broccoli e Glenn (che pure Moore lo aveva ampiamente diretto). Se si doveva cambiare, cambiamento vero doveva essere. Dalton si rilegge Fleming e matura la convinzione che il suo Bond dovrà essere più fedele al testo scritto, meno umorismo, più serietà e professionalità; la sfida continua con la morte rende Bond un uomo che se la gode, belle macchine, belle donne, sempre sul filo del rasoio perché potrebbe essere ucciso in qualsiasi momento. Quando l'interprete del franchise è cambiato sono sempre arrivate piccole e grandi novità, proprio per rimarcare il cambio di rotta, ridefinire il personaggio, rinfrescare la serie e non annoiare il pubblico o peggio, spingerlo a fare inutili paragoni. Accade anche con Zona Pericolo. John Glen è in realtà un segno di continuità dietro la macchina da presa (anche se sinceramente si fatica un po' a riconoscerlo rispetto agli altri episodi da lui diretti); altro segno di continuità è la theme song affidata agli A-ha, evidente tentativo di bissare il buon successo riscosso dai Duran Duran con "A View To A Kill". Ma stavolta, e per la prima volta, le canzoni sono più di una e di diversi artisti. Ad aprire il film ci sono gli A-ha con la canzone che dà il titolo al film in lingua originale (oltre che prenderlo in prestito dal racconto di Fleming) ma a chiudere arriva Christine Ellen Hynde dei Pretenders con "If There Was A Man".

Le Bond girls non sono più il solito piccolo plotoncino bensì una sola, Maryam D'Abo, al suo primo vero film importante. Le malelingue dicono che la scelta di ridurre l'harem fosse dovuta al clima di terrore generato dall'Aids, molto sentito in quegli anni, dunque anche Bond doveva adeguarsi. Inoltre questa insolita monogamia contribuiva a dare un segnale di ulteriore serietà e sobrietà all'agente britannico, così come pensato da Dalton. In verità nella prima grande scena d'azione che precede i titoli di testa Dalton in fuga atterra su uno yacht dove una bella signora upper class tutta sola si propone a Bond, ma è giusto un lieve accenno, poi Dalton non avrà occhi che per la D'Abo. Cambia anche MoneyPenny, terribilmente in peggio. Via l'elegantissima Lois Maxwell (anche lei presumo congedata per limiti di età), subentra Caroline Bliss, giovane biondina occhialuta insulsa e completamente sprovvista del minimo carisma. Pessima scelta e senza neppure un qualche goffo tentativo di giustificarlo, semplicemente Miss MoneyPenny è ringiovanita di 30 anni e questo è quanto. Q, M ed il generale Gogol rimangono al proprio posto. Insoddisfacente anche il comparto villain; oltre a riprendere i toni da guerra fredda, con i russi come super cattivi della situazione, l'antagonista di Bond si fa trino, e nello specifico si declina nel generale Puskin (John Rhys-Davies), nel generale Koskov (Jeroen Krabbé) e in Necros (Andreas Wisnieski), il loro scagnozzo implacabile. Il punto è che si tratta di cattivi cartooneschi, estremamente caricaturali, roba da Simpson. Puskin gioca con i soldatini, Koskov è un gigione innocuo, Necros è l'unico minimamente più a fuoco ma essendo lo "squalo" della situazione non ha un ruolo di comando, bensì solo meramente esecutivo (anche se quando getta le bottiglie "bombe" di latte suscita qualche ilarità).

Zona Pericolo fa l'effetto di un Bond enormemente depotenziato, gira a vuoto, come se non avessero ancora trovato il bandolo della matassa. La colpa non è di Dalton, ottimo attore e Bond anche credibile (fosse stato lui sin dall'inizio). Venire dopo due mostri sacri, così iconici e caratterizzanti, non sarebbe stato facile per nessuno e certo la scelta di rendere più rude e serioso il personaggio non ha aiutato. Dalton dà un taglio più lapidario ma anche più cupo e sofferto al personaggio, senza arrivare ai livelli di depressione nichilista che apparterranno a Craig, ma comunque un deciso passo in avanti sia rispetto a Connery che a Moore. Non viene supportato dalla D'Abo, una delle partner più scipite di sempre, tanto meno dai villain, praticamente la banda Bassotti da prendere a scappellotti e calci nel sedere. Molto buono l'inseguimento iniziale, promette di mantenere un buon livello ma il sogno svanisce rapidamente e il primo capitolo dell'era Dalton si rivela (per i miei gusti) un deciso passo indietro, pur con tutta la buona volontà ed il budget infusi nel realizzarlo. I gadget tecnologici vengono accantonati per porre maggior accento sull'uomo Bond, anche se la sua Aston Martin contiene un vero e proprio arsenale da guerra. Curiosa la parentesi afghana del film, con Bond che diventa un beniamino dei mujaheddin, una veste insolita per 007, che anticipa di un anno il terzo Rambo di Stallone.

Trailer ufficiale

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