Youth – La Giovinezza

Youth – La Giovinezza
Youth – La Giovinezza

La prima domanda è: ma Youth è La Grande Bellezza 2? Un po' si dai. I due film non sono perfettamente sovrapponibili, ma i punti di contatto sono diversi. Dal celebre titolo vincitore della statuetta in poi, Sorrentino ha canonizzato la sua way to film making, e credo che d'ora in avanti tutti gli stilemi codificati verranno riproposti di pellicola in pellicola, inesorabilmente. Nello specifico: un uso consapevole delle musiche (sempre ricercate, ariose, raffinate, non banali), una densità di sceneggiatura inversamente proporzionale alla valorizzazione degli ambienti, ritmi blandi ai limiti dell'estenuante, un montaggio che alterna continuamente quadretti estetizzanti e deconstestualizzati a fatti narrativi veri e propri (che comunque si contano sulle dita di una mano, nonostante le circa due ore di pellicola), riferimenti felliniani ineludibili, nudità femminili (ma di classe eh, mica zozzi), attoroni che sempre più faranno a gara per presenziare nel "nuovo film del grande regista italiano". Stavolta è il turno di Harvey Keitel, Michael Caine, Rachel Weisz e Jane Fonda. L'uso di Jane Fonda in particolare è molto similare a quello che viene fatto di Serena Grandi in La Grande Bellezza; Jane ha più minuti, ha battute, ha uno suo ruolo determinate nel film, tuttavia, con le dovute differenze, l'operazione mostra qualche parentela, gran diva sul viale del tramonto, abbrutita punitivamente e data in pasto al pubblico pagante accorso in massa al circo.

Caine fa abbastanza impressione, il suo fisico è veramente appassito, e questo si sposa cinicamente con il film che Sorrentino ha inteso realizzare, sia da un punto di vista visivo che contenutistico (termine da usare sempre con una certa elasticità nel suo caso). Non che Sorrentino non abbia una sua sostanza filmica, ma è lui stesso il primo a mortificarla e relegarla a ingrediente collaterale, preferendogli in modo maniacale la forma. Visto senza audio (esattamente come La Grande Bellezza), Youth è un film affascinante, magnetico, intrigante (anche se estremamente decadente). Grazie ai paesaggi elvetici, agli interni del grande albergo che ospita i personaggi, all'uso delle luci e dei chiaroscuri, alle coreografie degli attori in scena. Se è possibile preferire Youth al suo pluripremiato predecessore è solo perché quello trattava temi effimeri (sguazzandoci con autocompiacimento) mentre questo si dibatte tra la vita e la morte, mettendo in particolare sotto la lente del microscopio la fase terminale dell'esistenza umana, la vecchiaia (di contro al titolo). E la giovinezza (tanto fisica quanto spirituale) è l'anelito più vibrante proprio per coloro i quali sanno di averla perduta per sempre. Il ricordo di essa genera nostalgia e malinconia infinite e, al contempo, pare un'autostrada senza aree di sosta per la depressione, poiché desiderare ciò che non si può avere uccide.

Ovvio che Keitel, Caine e anche Rachel Weisz diano prova di essere quei bravi attori che sappiamo essere, ovvio che Sorrentino non sia Tano Cimarosa dietro la MdP; sta diventando altrettanto ovvio però che giunti al termine della visione di un film del "maestro" si rimanga sempre con quel "si, però...." stampato in faccia. Personalmente, avendo detestato oltre ogni limite e misura La Grande Bellezza, posso affermare che Youth mi è risultato almeno sostenibile, anche se la digestione è stata ugualmente accidentata. Tra irritanti perifrasi fotografiche e puramente estetiche, tra dialoghi volutamente "ultimativi", tra siparietti senza senso (la love story tra la Weisz e la guida alpina), tra un manierismo più imponente del Cervino, e tra l'obbligato colpo di scena finale, addirittura doppio (per scuotere dal dormiveglia lo spettatore), Youth si presta a molte delle critiche già indirizzate a La Grande Bellezza. Sul versante opposto, se avete gradito - o peggio ancora amato - quello, non potrete che convolare a nozze pure con l'ultima fatica del regista partenopeo. La primissima scena profeticamente dà la cifra del film: in primo piano c'è una cantante che intona la canzone dei titoli di testa (senza i titoli di testa, anzi il titolo del film arriva tipo dopo un quarto d'ora), con il batterista della band sullo sfondo (e sfocato); i due sono su una piattaforma circolare che gira su se stessa, creando un effetto di movimento rispetto al background. Idea carina, che Sorrentino prolunga per un'eternità, annichilendo completamente l'effetto dinamico e trasformando la scena in qualcosa di statico e insistito, mentre si aspetta lo stacco che non arriva mai. Perché? Perché tutti avrebbero fatto il contrario. Articolo 1, paragrafo 3, secondo capoverso della filosofia teoretica del cinema sorrentiniano.

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