Esiste la tv del dolore, quella che spettacolarizza programmaticamente l'angoscia, la disperazione e la sventura, e ahimè esiste anche il cinema del dolore, che si intestardisce a cercare pervicacemente lo scoramento e a rappresentarlo dal primo all'ultimo fotogramma, incessantemente, in un campionario di disgrazie da guinness dei primati, coadiuvate ed elevate a potenza dal mezzo cinematografico, dal montaggio, dalla recitazione, da mille accorgimenti volti ad esasperare crucci e sofferenze. Un Giorno Perfetto di Ferzan Ozpetek non è solo un film che non mi è piaciuto, mi ha proprio irritato, profondamente contrariato per il suo scientifico ed ostinato mirare al bersaglio del disagio, tanto dei protagonisti della storia quanto, per proprietà transitiva, dello spettatore. Il soggetto è di Melania Mazzucco, autrice dell'omonimo romanzo dal quale il film è tratto, dunque può darsi si tratti anche di un concorso di colpa, tuttavia il regista è autore e le scelte (e le non scelte) riguardo a cosa si vedrà sul grande schermo gli appartengono e lo rappresentano. Il cast è forse la prima spia dell'intenzione di ingabbiare lo spettatore, Isabella Ferrari, Valerio Mastrandrea, Stefania Sandrelli, Monica Guerritore, Nicole Grimaudo, un parterre d'eccellenza che mi ha (piacevolmente) obbligato come una calamita a vedere Un Giorno Perfetto. Il ricorso ad un cast perfetto come il titolo, di esperienza e fortemente attrattivo, anziché avvalersi di nomi meno prestigiosi, magari ottimi attori ed attrici ma più freschi, con meno curriculum da esibire, suggerisce il proposito di voler giocare sul velluto e strappare "sulla fiducia" una certa empatia da parte del pubblico.
Venendo al merito della storia raccontata, fa un certo effetto il coacervo di umanità spostata, desolata e derelitta, di fragilità, patologie e tribolazioni stratificate in 106 minuti. Una serie interminabile di disgrazie, di scelte ed accadimenti negativi che culmina con i fuochi d'artificio della tragedia (annunciata). Gli attori sono indiscutibili quanto a mestiere e carisma ma qui la loro missione è accattivarsi la compassione degli spettatori. E allora ecco la Ferrari con lo sguardo sempre intenso, perforante, con pause ritmiche nelle battute e nei dialoghi misurate al millimetro di sceneggiatura; recita un personaggio che sembra fratturato in due personalità diverse, la donna Calimero, vessata, vittima perenne, disillusa ma sempre lucida e consapevole, e quella sbarazzina, glamour, che ama l'abbigliamento vistoso, seducente, corredato di tacchi e trucco marcato. E poi ecco la Guerritore, algida, silenziosa, che osserva statuaria la Ferrari come farebbe uno zoologo con una specie primate caraibico particolarmente esuberante; sguardi severi, carichi di riflessione, di analisi e forse anche di giudizio, che tuttavia non vengono esplicitati ma rimangono sospesi, celati nel non detto, perché lo spettatore vaghi a tentoni, avvolto dall'ombra. Il suo è un personaggio che arriva dal nulla e sparisce nel nulla, attraversa lo schermo in modo esclusivamente funzionale alla Ferrari, serve a sviluppare narrativamente il personaggio della Ferrari e tanto basta. Eccessivamente telefonato quello della Sandrelli, bidimensionale, ridotta al minimo della (solita) evanescente sciocchina. Da manuale pure quello di Valerio Binasco, lo stereotipo del politico italiano, naturalmente indagato, prossimo al carcere ma speranzoso di salvarsi grazie all'immunità parlamentare, motivo per il quale è tutto rivolto alla sua rielezione, arido nei sentimenti, superficiale nei rapporti familiari eppure rigorosamente accompagnato da una bella donna di 15 anni più giovane, quasi coetanea del figlio.
Infine c'è Mastrandrea, non la prima scelta di Ozpetek per il ruolo, che venne addirittura proposto a Fiorello, il quale per fortuna rifiutò. Mastrandrea recita bene, personalmente ho molta simpatia per lui, ma il personaggio lo ammazza, in tutti i sensi. Il film va esattamente dove deve andare, dove ci si aspetta che vada, ovvero dritto verso l'olocausto, che dispensa fettina per fettina lungo tutta la sua durata. E la percezione di questo solleticarlo manifestamente, evocarlo, perseguirlo scientemente, finisce con l'irritare lo spettatore, perlomeno il sottoscritto. Il finale è un'apoteosi in tal senso, ed in particolare l'ultima scena, la lunga passeggiata della Ferrari che (finalmente) si gusta un gelato da 4 euro diventa un esercizio di stile. Lei che prende le pillole per dimagrire, non si concede mai niente, è severa con se stessa più di chiunque altro, dunque quel gelato è come il più grande presagio di sventura dai tempi dell'albatros di Samuel Coleridge. Cammina spensierata, sollevata, come una vispa Teresa, come raramente le è accaduto da anni a questa parte. Poi si ferma di colpo, guarda ripetutamente a destra ed a sinistra di un incrocio, fissa l'obbiettivo della camera, l'espressione si aggrotta, un cipiglio l'attraversa fugacemente senza alcun motivo plausibile se non quello che lo spettatore già conosce ma il personaggio della Ferrari in teoria no; tuttavia siamo in pieno metacinema, la Ferrari ammicca, come a dire "so che sto per essere travolta da un treno ," ed infatti squilla il telefono, il trillo della tragedia, l'inquietudine negli occhi sgranati della Ferrari volge a nero, titoli di coda: un film di Ferzan Ozpetek.