Nel 2000 Steven Soderbergh è talmente su di giri che produce due film, Erin Brockovich e Traffic (ma non è raro che il cineasta americano annoveri più film nel medesimo anno). Traffic è un film clamoroso, che conserva fortemente lo sperimentalismo con cui Soderbergh è facile giocare. Solo che il regista non lo fa in modo troppo cerebrale ed intellettuale, non mira a farsi attribuire dalla critica che conta la patente di autore con la A maiuscola, Soderbergh conserva un legame inscindibile con il cinema commerciale, lo rispetta, lo frequenta, lo incorpora nelle sue pellicole e ne metabolizza i codici. Questo fa si che, ad esempio, un critico come Mereghetti attribuisca al film 2 stellette e mezzo (perché tecnicamente si fa fatica a demolirlo), ma al contempo dica che in modo un po' ruffiano Soderbergh si serve di argomentazioni di denuncia, "politiche", per macinare banalmente consensi da Oscar (vincendone quattro per altro: regia, sceneggiatura non originale, montaggio e miglior attore non protagonista). La narrazione sarebbe schematica, semplificatrice, insomma Soderbergh è ancora troppo commerciale per i gusti di un fine esegeta, troppo attento a far capire qualcosa al pubblico, a mescolare divertimento con riflessione, quando invece dovrebbe demolire il pubblico che paga per vedere i suoi film a colpi di astruserie, passare come un rullo compressore sugli spettatori, e chi non apprezza peggio per lui, se ne vada a vedere i film di Jackie Chan e Jean Claude Van Damme.
Il fascino di Soderbergh, a mio modesto parere, risiede proprio nel bilanciamento perfetto tra cinema sopra la media e attenzione all'entertainment, poiché l'eccesso di uno dei due ingredienti renderebbe i suoi film o troppi velleitari o troppo superficiali. Soderbergh è uno che ha coraggio di osare, il che, unito al mestiere titanico che ha ampiamente dimostrato di possedere, fa sì che ogni sua pellicola sia una parentesi da non lasciarsi sfuggire, pur all'interno di una filmografia che, come per 99% dei registi (praticamente escludiamo Kubrick), conta progetti migliori e progetti non necessariamente eccellenti (e con Magic Mike un po' di fondo del barile lo abbiamo toccato). Traffic è "quello della tripartizione cromatica", ovvero fondamentalmente tre zone concettuali del film rispettivamente caratterizzate da un diverso uso della fotografia (a proposito, il direttore della fotografia Peter Andrews altri non è che Soderbergh stesso sotto pseudonimo). In Messico, e più in generale negli ambienti dei narcos, tutto scorre giallo-ocra ed estremamente saturo (visivamente parlando); a Washington, nei freddi e spersonalizzanti ambienti governativi, dove chi decide è lontano dalla realtà quotidiana, concreta e prosaica, delle strade, tutto si tinge di un asettico blu digitale; a San Diego, dove due agenti della narcotici conducono le loro indagini, e la moglie di un affarista della droga sgomita per non perdere il suo posto nella società del lusso, la realtà è naturale, effettiva, non alterata. Le tre sezioni del film si incrociano continuamente e si riversano l'una dentro l'altra, personaggi compresi, senza che però i rispettivi protagonisti vengano mai in contatto diretto gli uni con gli altri. Abbiamo due cartelli della droga che si combattono per la supremazia in Messico (supremazia da estendere anche negli States), con il generale Salazar nel mezzo (Tomas Milian) che semina omicidi e torture; abbiamo il business man Carl Ayala a processo, mentre la moglie Helena (Catherine Zeta Jones) assume il controllo degli affari di famiglia per preservare il benessere di una vita agiata, fatta di ville, soldi, suv e sogno americano, e commissiona l'omicidio del principale testimone accusatore del marito; abbiamo lo zar dell'antidroga di Washington, Robert Hudson Wakefield (Michael Douglas), distinto e signorile, ma fondamentalmente lontano anni luce dal mondo a cui deve fare la guerra, tanto da trovarsi i nemici in casa, ovvero una figlia adolescente ribelle senza causa, sbandata e schiava della droga, mentre anche il suo matrimonio sta andando a rotoli.
Traffic sa essere terribilmente crudo quando serve, in particolar modo nella realtà che Benicio del Toro, poliziotto messicano, traduce al pubblico con i suoi occhi sofferenti, o nella discesa agli inferi che Douglas padre inadeguato percorre per salvare disperatamente sua figlia, ricordando un po' il Geroge C. Scott di Hardcore di Schrader. Persino il dolore della Zeta Jones, madre in ansia per il figlio e devastata dalla perdita di certezze (economiche), finisce in qualche modo per strappare un minimo di pietà, nonostante si tratti di un animo umano intinto di cinismo, opportunismo e totale assenza di scrupoli. Soderbergh gioca in modo sottile con le psicologie, differenziandole e definendole molto acutamente (come fanno i veri autori, con buona pace di Mereghetti). E la sottolineatura cromatica dei cambi di luogo (e di stato d'animo) serve a rendere queste migrazioni di meridiani e paralleli ancora più plastiche e marchiane. Soderbergh prende attori come Douglas, Dennis Quaid e la Zeta Jones e li scaraventa in un universo pesantemente drammatico e guasto, in qualche maniera sporcando il loro curriculum di eroi positivi; esalta ai massimi livelli le qualità di Del Toro (che infatti porta a casa l'Oscar). Incredibile il lavoro fatto su Tomas Milian, praticamente irriconoscibile, di una perversità degna dei più grandi villain del cinema, purtroppo tragicamente vicino a molti caudillos raccontati dalla cronaca del '900 in America latina (in particolar modo al generale Jesus Gutierrez Rebollo).
L'elenco di premi e riconoscimenti ottenuti dal film è impressionante, nonostante un finale conciliante che in parte stempera un po' l'amarezza. Non che si possa parlare di happy ending, tuttavia Soderbergh a finire in malora non ci sta, ed in qualche misura inietta della speranza nella storia che ha appena terminato di raccontare. Il film trasse spunto da una fiction in quattro puntate trasmessa sul britannico Channel 4. La 20th Century Fox avrebbe dovuto finanziare la pellicola, esigendo alcuni cambi narrativi, Harrison Ford tra i ruoli dominanti (il quale effettivamente si incontrò con Soderbergh ma successivamente abbandonò il ruolo, finito poi a Michael Douglas), ed un minor metraggio. Soderbergh non accettò imposizioni, arrivando a finanziare di tasca sua la pre-produzione, e da un budget di 46 milioni di dollari alla fine ne scaturirono circa 207 di incasso. Venne prodotta una una nuova serie televisiva, stavolta americana. Nella parte "messicana" di Traffic l'idioma parlato in originale è lo spagnolo, mentre il doppiaggio italiano non ne tiene conto. Soderbergh intendeva preservare l'integrità del film, intendendo che lo spagnolo, ovvero una lingua straniera da comprendere, avrebbe reso bene l'impenetrabilità di una cultura che non aveva nessuna intenzione di aprirsi. Il regista sostiene di essersi ispirato a film come Z di Costa Gravas e La Battaglia Di Algeri di Pontecorvo, pellicole capaci di trasmettere quel senso di "caught in the middle" che la scena doveva dare, e a Tutti Gli Uomini Del Presidente di Pakula, proprio per la ideale commistione di denuncia ed intrattenimento. Il primo montaggio del film era di ben 190 minuti