Nel 1999 usciva The Big Khauna, un film che fu un vero caso cinematografico. Nonostante un'impostazione strettamente teatrale, tre personaggi di numero ed una suite d'albergo in cui avviene tutto, la pellicola ebbe un successo enorme, che tracimò ben oltre il grande schermo delle sale. Tutti avevano una citazione da portare nel taschino, The Big Khauna si trasformò per un po' in un fenomeno culturale. Una sceneggiatura fatta esclusivamente di dialoghi verbosissimi certosinamente sezionati e trasformati in decine e decine di meme, massime esistenziali buone per tutte le stagioni, grandi verità evergreen che poi hanno trovato la loro sublimazione sui social. La storia è quella di tre venditori, dei "piazzisti" - come si definiscono loro non senza una vena di sarcasmo autocompiaciuto e nichilista - che attendono nuovi clienti ad una convention per risollevare le sorti dell'azienda, e fra tutti un facoltoso mr. Fuller che sarebbe il pesce grosso, il "big khauna" (dalla lingua hawaiana). La serata sembra andare in bianco ma in realtà il più giocane dei tre, Bob (Peter Facinelli) ha colloquiato tutta la sera con Fuller senza sapere chi fosse. Sarà proprio Bob dunque ad essere spedito ad una festa privata dove si trova Fuller per convincerlo ad investire nell'azienda.
- SPOILER: Bob però è un fervente battista, intriso di religione e dogmi assoluti e anziché fare l'interesse dell'azienda, si limita a parlare con Fuller esclusivamente di vita, morte e Gesù Cristo, mandando su tutte le furie il collega anziano Larry (Kevin Spacey). I due verranno anche alle mani e sarà Phil (Danny DeVito) ad avere una parola buona per Larry e a dispensare qualche insegnamento di vita a Bob, invitandolo ad una maggiore empatia verso il prossimo e ad allentare la sua rigidità oltranzista derivante dalla fede.
The Big Khauna non è affatto un cattivo film, è ben recitato, ben girato e la staticità della messa in scena non porta ad alcuna pesantezza durante la visione, nonostante la completa assenza di dinamismo e varianti. Tuttavia mi è sempre sembrata un'operazione alquanto furba, a suo modo cerchiobottista, accorta a misurare anche le virgole per affascinare e raggiungere quanto più pubblico possibile. A ben vedere già il primo scambio di battute, con schermo ancora nero, tradisce l'impostazione del film e dove vuole andare a parare. Mi riferisco a DeVito che non trovando Spacey dice che sarà andato a far compere, poi chiosa che si tratta di un modo di dire, una battuta, una cosa che gli uomini dicono quando parlano delle loro mogli. Uno stereotipo insomma. E suppergiù quella è la chiave del film, neanche tanto nascosta. Si è continuamente bombardati da questi dialoghi all'apparenza profondi, solenni, forieri di grandi verità esistenziali, "rivelazioni" che è possibile stiracchiare in ogni modo ed in ogni direzione, facendole rimanere comunque in piedi, in equilibrio, perennemente valide da qualunque angolazione le si guardi. C'è più vuotezza e astuzia in quelle battute che grande filosofia, ma il talento di Swanbeck alla regia e di Roger Rueff alla sceneggiatura (autore della commedia teatrale Hospitality Suite da cui il il film è tratto) è proprio l'aver reso il film "larger than life", molto più grande di quanto non fosse in realtà. Ciò non toglie che The Big Khauna abbia i suoi momenti. In particolare mi piace citare il dialogo finale tra Danny DeVito e Facinelli durante il quale (a seguito dello scontro appena avuto dal ragazzo con Kevin Spacey) DeVito un po' paternalisticamente dà qualche consiglio di vita al giovane, quasi una sorta di passaggio di consegne su come si sta al mondo. Molto ben congegnati i caratteri dei tre, cinico e materialista Spacey con il suo fisico dinoccolato, disilluso e malinconico DeVito con la sua silhouette buffa e goffa, netto e rigido Facinelli con la sua faccia da Clark Kent. Celebre il monologo che si sente sui titoli di coda, rimasto in inglese pure nella versione italiana, nel quale DeVito (ma in realtà la voce non è sua) mette in fila una sorta di decalogo rivolto ai giovani sulle cose da fare e da non fare. Lo scrisse Mary Schmich, giornalista del Chicago Tribune, che il 1º giugno 1997 lo pubblicò come articolo col titolo Advice, like youth, probably just wasted on the young, altrimenti noto come Wear Sunscreen. In Italia Linus si innamorò di quel momento e lo ripropose in radio, col doppiaggio di Massimo Lopez e con la stessa base musicale del film.