Nel 1988 cinematograficamente parlando l'anno fu monopolizzato da Rain Man, a prescindere dagli Oscar vinti, 4 su 8 nomination totali. Uno di quei film "evento" che qualche anno addietro erano molto più frequenti, come accaduto a Titanic o Avatar (incidentalmente ho citato due titoli di James Cameron). Il cinema fast food odierno sforna continuamente hamburger del giorno, che fatalmente il giorno dopo sono già superati dal nuovo hamburger del giorno. Questa la filosofia di fondo di Barry Levinson sulla attuale condizione dell'industria cinematografica, lui che Rain Man lo ha vissuto e praticamente strappato dalle mani di Sidney Pollack. Levinson fu addirittura la quarta scelta, dopo Martin Brest, Spielberg e Pollack, ma sentì profondamente suo il film e gli dette un'impronta assolutamente personale. Arrivò quando Dustin Hoffman era già al lavoro sul personaggio, anche se inizialmente avrebbe dovuto interpretare il ruolo assegnato poi a Tom Cruise, e per il fratello "autistico sapiente" ci sarebbe dovuto essere Bill Murray. Documentatosi a sufficienza, dopo mesi a contatto con quel mondo, Hoffman optò per la parte di Raymond. Levinson racconta che Hoffman era disperato e chiedeva lumi su come poter dare credibilità a quel ruolo, convinto di fare un disastro. Che fosse falsa modestia o vera ambascia, è andata a finire che quell'anno si è portato a casa l'Oscar, per altro meritatissimo. La sua simbiosi con l'autismo è impressionante.
Funzionale al personaggio anche la scelta di Tom Cruise, che veniva dalla tripletta di successo Top Gun/Il Colore Dei Soldi/Cocktail. Chi meglio di lui avrebbe saputo infondere in Charlie Babbit quel misto di arroganza, sbruffoneria, strafottenza e superficialità da ragazzotto in carriera? Il suo però è l'unico fratello Babbit che conosce un'evoluzione durante la storia, perché la vera sfida era far appassionare il pubblico ad un personaggio che per ragioni di forza maggiore (l'autismo), non cambia di un centimetro dalla prima all'ultima pagina del copione. Una regola non scritta del cinema è proprio quella, i personaggi alla fine non sono uguali al'inizio, per le esperienze vissute in quei minuti nei quali noi li abbiamo visti sullo schermo. A Raymond questo non può accadere ed il rischio era che la stasi avrebbe potuto cristallizzare ed irrigidire il film. Doveva muoversi tutto il resto, le location (ecco il tono quasi da road movie), gli altri attori e le loro dinamiche interiori. Fatte le debite premesse, chapeau comunque a Hoffman per la stellare resa di Raymond Babbit, nato dalla fusione di molteplici autistici sapienti conosciuti dal vivo da Hoffman durante la lavorazione (e ringraziati apertamente dal palco degli Academy Awards).
Valeria Golino invece non piacque a tutti. La sua voce, un po' come per Asia Argento, è sempre stata un limite (o perlomeno, la dizione impastata e strascicata). In Italiano si doppia da sola. Fisicamente tutto si può dire tranne che la Golino non fosse una bella donna (all'epoca poi aveva 23 anni), anche se non è mai stata il tipo vamp. E' che il suo personaggio è troppo meno intenso rispetto ai due gargantueschi comprimari e quasi chiunque al suo posto sarebbe rimasta schiacciata. Levinson la scelse perché voleva un accento europeo, non americano, a sottolineare le difficoltà di comunicazione - e quindi comprensione - con lo scorbutico fidanzato Tom Cruise. Il film fu girato durante uno sciopero di sceneggiatori, il che peggiorò non poco la lavorazione. Il finale in particolare risentì di questo mancato apporto; Levinson scelse la via più semplice, più snella, spogliata di orpelli e complicazioni; più il film arrivava diretto allo spettatore più sarebbe stato un bene. E così fu. Se ci si pensa, la scena finale di Rain Man è di una essenzialità assoluta e tutto si gioca sul dettaglio che - nonostante tutto - Raymond non alza la testa per salutare suo fratello (o perlomeno incrociarne lo sguardo) mentre il treno parte. Sarebbe stato rincuorante per lo spettatore ma Raymond assolutamente non può farlo, perché l'autismo è esattamente questo, l'impossibilità di evadere da una misteriosa teca di vetro nel quale la persona è imprigionata, e la quasi impossibilità di penetrarla da parte di chi gli vive accanto. Un percorso difficile e snervante da compiere in parallelo, con la probabilità che molto raramente le strade potranno sovrapporsi ed incrociarsi, tuttavia senza mai perdersi vicendevolmente di vista.
Il tono di Rain Man è elegante, discreto, sensibile, umano, non eccede in spettacolarizzazione, perlomeno non più del dovuto, trattandosi pur sempre di una produzione hollywoodiana. Ed è strabiliante sapere quanto quella pellicola abbia abbattuto barriere, quanto in America più che in ogni altro luogo sia stata persino necessaria per favorire la comprensione dell'autismo, del corretto inquadramento di questo disturbo neurologico che non deriva da un glaciale rapporto infantile con la propria madre (teoria accreditata fino a non molto tempo fa) ma da un preciso limite fisiologico. il produttore Mark Johnson raccontò di quante mila lettere ricevette in quel periodo da parte di famiglie con una persona cara affetta da autismo e di come tutto intorno a loro (e dentro lo stesso nucleo familiare) fosse maturata esponenzialmente una evoluzione in positivo, proprio grazie ai 126 minuti di pellicola. E' già difficile fare un bel film e che faccia riflettere, figuriamoci uno capace di incidere sulla realtà della vita concreta delle persone in modo così marchiano e profondo. Infine, menziona di merito per la sublima colonna sonora di Hans Zimmer, qui alla sua prima collaborazione di rilievo con il cinema di serie A dello zio Sam.