Renzo Martinelli è un regista da battaglia, uno che il mestiere lo conosce (negli anni '70 ed '80 gira e/o produce una caterva di spot pubblicitari che hanno fatto abbastanza epoca nella cultura popolare catodica degli italiani, nonché videoclip musicali di artisti di prim'ordine nazionali ed internazionali, da Dalla e Battiato ai Van Halen), di certo uno che ama sempre cercare posizioni scomode dalle quali dirigere un film, non deve essere accogliente la sua sedia di "director", bensì all'arma bianca, provocatoria e circondata di filo spinato. Solo così si spiegano i film ma soprattutto le tematiche e le sceneggiature che si è via via scelto nel corso del tempo. Materiale sempre un po' "contro", "anti", certamente non affine alla vulgata più accondiscendente e politicamente corretta. Piazza Delle Cinque Lune rientra a pieno titolo in questa categorizzazione. Caso Moro, basterebbero queste due parole per rendersi conto di come sia "pericoloso" un racconto che abbia un simile centro di gravità permanente. In quel 2003 pure Marco Bellocchio se ne esce con una pellicola sul rapimento Moro, con esiti (ovviamente) diametralmente opposti, non solo per la cifra stilistica dei due registi (diversissima) ma anche per la focalizzazione della vicenda, quella di Martinelli è tutta ex post, un'indagine che ricostruisce gli eventi di via Fani, quella di Bellocchio è un'analisi di quei giorni, in tempo reale.
Per il taglio che Martinelli decide di dare a Piazza Delle Cinque Lune difficilmente uno spettatore immaginerebbe di trovarsi al cospetto di un film italiano (se non sapesse chi è il regista). Girato a Siena, con un cast quasi esclusivamente italiano, il film ha un'estetica ed un ritmo molto "americani" e richiama abbastanza da vicino quel filone di thriller politici di stampo atlantico alla Oliver Stone. L'immagine è continuamente rielaborata digitalmente, luci e scenografie non appaiono mai naturali ma segnate da filtri e "abbellimenti" anche discutibili, soprattutto perché manieristici e ossessivi. Ossessiva è anche la presenza della musica, ansiogena e insinuante, che deve evidentemente contribuire a trasmettere senza soluzione di continuità quel senso di minaccia impellente e di angoscia rivelatrice. Tra le cose che ho trovato più irritanti tuttavia c'è la frequentissima proposta di inquadrature sghembe e storte; lungi da me l'essere un cinefilo purista conservatore, trovo assolutamente apprezzabile l'idea di sovvertire l'ordine costituito e creare movimento e dinamismo anche attraverso l'improvviso capovolgimento dell'ovvio, quindi riprendere una strada in obliquo o una da un'angolazione che potrebbe essere quella di una nano zoppo, il problema è che Martinelli lo fa in continuazione, senza alcuna ragione e necessità narrativa, per il solo gusto (estetico) di farlo. E ti ritrovi a domandarti perché mai devi vedere una strada del Chianti tutta di sghimbescio senza che questo cambi alcunché nell'economia del film. Come se non bastasse, Martinelli abusa anche della telecamera a mano, terremotando una quantità di immagini enorme. E allora c'è Donald Sutherland semplicemente seduto su una sedia e noi lo osserviamo come se avessimo appena scolato cinque bottiglie di Amaro Montenegro, oscillando paurosamente in ogni dimensione conosciuta dello spazio. Perché? Beh, fa ansia.... senza dubbio fa parecchia ansia, anche nausea.
E veniamo a Sutherland, la sua interpretazione del procuratore capo di Siena è assai spaesata. Stiamo raccontando una storia italiana, in uno scenario italiano, esplosa ad un livello tale di dettaglio che solo un italiano l'avrebbe permeata della dovuta intensità ed adeguatezza, e come protagonista viene scelto un canadese che, pur essendo un attore eccellente, risulta alquanto fuori parte, mai realmente coinvolto in ciò che gli sta accadendo. Sono totalmente assenti la dimensione e la profondità della tragedia dei fatti del rapimento e dell'omicidio di Aldo Moro. Accanto a Sutherland, come sua guardia del corpo, c'è Giancarlo Giannini ed immediatamente uno pensa "ma perché non è stato offerto a Giannini quel personaggio?" Oltre ad interpretarlo magnificamente lo avrebbe reso più credibile. C'è Stefania Rocca, però doppiata. Perché? In America persino la Golino manteneva la sua voce ed in Italia la Rocca viene ridoppiata (da Eleonora De Angelis), sgonfiando un po' il personaggio. C'è addirittura Philippe Leroy, relegato a barista per un totale di ben 5 secondi. Ci voleva proprio Leroy per quella posa. Anche Martinelli e sua figlia si concedono un cameo (sono gli informatici che decriptano il dischetto dove c'è il memoriale di Moro), e visto che eravamo tanto convinti col doppiaggio, ecco... forse Federica Martinelli si poteva doppiare.
Detto tutto ciò, Piazza Delle Cinque Lune non è una pellicola disastrosa o inguardabile, ha il suo fascino, non fosse altro per la cervellotica (ma plausibile) ricostruzione dei fatti del '78. Certo, si respira un'aria asfittica di complottismo ma non è affatto da escludere che quella finzione sia piuttosto prossima alla realtà. E' che, nonostante il febbricitante andamento da thriller con effetto wow, Piazza Delle Cinque Lune ci lascia con un senso di effimero, di artefatto, di posticcio che in qualche misura invalida la sua sostanza politica. Tutto quel sensazionalismo ("Il caso Moro: le verità nascoste"), quel bisogno di ostentare piacioneria e glamour, toglie qualcosa alla materia che viene raccontata, alla sciagura che evoca per la storia italiana e per chi l'ha vissuta in modo diretto e indiretto.