Il bisogno di tornare al giallo classico arrivava da una insistente vocina interiore che spingeva Dario Argento a questa manovra ad U, dopo aver strabordato nell'horror, nel fantastico, persino nel "musicale" come disse lui stesso (immagino riferendosi ad Opera e/o a Il Fantasma Dell'Opera). Anche il pubblico pare invocasse a gran voce questa riconversione e magari il buon Dario avrà pensato di prendere due piccioni con una fava, rinverdire una vecchia passione e augurarsi un buon riscontro al botteghino. Nasce così Non Ho Sonno, che inevitabilmente si abbevera anche di molto citazionismo autoreferenziale, vuoi perché si torna a Torino, città estremamente cara ad Argento, vuoi perché alcuni omicidi riprendono uno schema già visto in passato e poi c'è addirittura la scena di Gabriele Lavia che si ripropone quasi identica a quella di Profondo Rosso. Ci sono tanti leit-motiv del cinema argentiano, la villa abbandonata che cela misteri risolutivi dell'enigma, un manichino meccanico, un vagabondo, la centralità della musica (fuori e dentro il film), le suddette atmosfere sabaude e poi i guanti neri, le solite povere cristiane trucidate in modo efferato (con conseguente accusa di misoginia che da sempre accompagna il regista), una scelta estetica della attrici protagoniste che non può passare inosservata visto che Barbara Lerici (la prostituta che apre il film) sembra una specie di trasfigurazione più "sconcia" e sciatta di Daria Nicolodi, mentre Chiara Caselli pare una versione di Asia Argento più minuta e garbata.
Il giallo è confezionato immediatamente, con un antefatto (anni '80) che si dispiega al pubblico per poi catapultarci nel presente. Come ha ammesso lo stesso Argento, i primi 20 minuti di film hanno il turbo, sembrano girati sotto steroidi, c'è un'urgenza (ed una violenza) espressiva che assaltano letteralmente lo spettatore. Fino a che non lasciamo treni e stazioni ferroviarie non possiamo tirare il fiato. Questo ha un certo peso nel film perché poi il prosieguo sembra quasi sbilanciato. Quella furia ai limiti del parossismo si placa, si acquieta e l'indagine prende un'incedere "normale", più pacato, analitico e riflessivo, sebbene sempre costellata di cadaveri. Anche da un punto di vista estetico si nota lo iato tra le due parti di film, l'inizio è molto più sgargiante e sguaiato, persino "trash" (in senso buono). Mi si dirà, eh beh... il fuoco della macchina da presa è una mignotta; vero, ma c'è modo e modo di seguire le gesta di una donna a pagamento. La Lerici è subito nuda, sgraziata, truccata e vestita in modo volgare, ed ha un'espressività sempre caricaturale. Sul treno poi accade l'indicibile e questa esasperazione visiva è ancora più accentuata. Dopo di lei è il turno di un'amica (collega?) e di nuovo non si possono non notare le forme e gli abiti di scena. Sembra che Argento voglia proprio farci porre attenzione sull'aspetto marcatamente sensuale, carnale, sanguigno di questa frazione di pellicola. Più avanti tornerà questo accento nella sola occasione del rapporto amoroso tra la Caselli e Dionisi. Quella scena pare quasi superflua, non necessaria, se non per controbilanciare ciò che contemporaneamente sta accadendo a Max Von Sydow, in un'ideale dicotomia di eros vs thanatos. Subito dopo c'è un insistito dettaglio sul fondoschiena della Caselli con primissimo piano delle sue mutandine.
Non sono rimasto convintissimo della scelta del cast. In parte l'effetto di straniamento deriva dal doppiaggio (cosa sistematica nei film di Argento, girati sempre in inglese per il mercato straniero e poi ridoppiati). Dionisi è stranito e questo in effetti non deve stupire più di tanto, sia pensando al background del suo personaggio sia a quello vero e proprio di Dionisi. La Caselli è troppo "poco" per la frenesia di Argento, una specie di iniezione di bromuro che arriva ad abbassare la temperatura. Chissà perché Argento ha letto in lei la perfetta chiave di lettura del personaggio di Gloria. Molti spunti che il regista intende mettere nel film sono appena accennati e risultano più chiari nelle intenzioni dichiarate da Argento che nelle pagine di sceneggiatura (curata anche da Carlo Lucarelli), come ad esempio le "sportellate" tra moderna polizia scientifica e il vecchio metodo deduttivo alla "Sherlock Holmes" praticato dal poliziotto in pensione interpretato da Von Sydow; l'innamoramento tra la Caselli e Dionisi, talmente understatement ed accennato da essere appena percepito dallo spettatore; oppure ancora l'incipiente alzheimer dell'ex commissario. Non mancano le consuete "ingenuità" argentiane, cose a cui Dario dimostra di non prestare alcuna cura ed attenzione ma che spesso gli valgono gli strali di un pubblico bullo, saccente e assai poco empatico. A me il film non è dispiaciuto perché le atmosfere sono gradevoli e qua e là l'estro di Argento salta fuori e si lascia accarezzare. Certo, la prima metà di carriera è altra cosa, ma nei suoi anni recenti è arrivato anche molto (ma molto) di peggio. La colonna sonora dei Goblin (appositamente riunitisi dopo 23 anni per l'occasione) ricevette una candidatura ai Nastri d'Argento... a me francamente non è sembrata granché, ma neanche a loro se si leggono a posteriori le dichiarazioni al riguardo di Claudio Simonetti.