Da Istanbul a Napoli, nel 2017 Ferzan Ozpetek è in sala con due film, uno nel titolo ha la sua città natia, l'altro invece Napoli, e lo stesso regista ha dichiarato quanto abbia trovato una consonanza ideale e spirituale tra i due luoghi. Napoli come Istanbul dunque, ed infatti come tale il regista la tratta, cinematograficamente parlando. Non la capitale di Gomorra ma un pulsante dedalo multiculturale di contrasti, povertà ed opulenza, vicoli vecchi e affollati di contro ad architetture ora maestose, barocche e roccocò, ora contemporanee e di design come le stazioni della Metro. E poi scale mobili che si intreccianto, la solennità del Museo Archeologico, il cimitero delle Fontanelle, la Galleria Principe, Castel Sant'Elmo, la Cappella San Severo (con il Cristo velato), eccetera; una guida turistica per palati fini, che cerca di non affogare necessariamente nello stereotipo oppure, di contro, di abbracciarli tutti, così da annullarli vicendevolmente e restituire di Napoli l'immagine di una città antica e moderna, solare e misteriosa al contempo, la cornice dentro la quale la storia si sviluppa e procede.
Per mia fortuna, non essendo esattamente un fan sfegatato di Ozpetek, Napoli Velata ha un marchio vagamente thriller, anche se risulta abbastanza chiaro che il centro d'interesse del narratore non è né l'aspetto giallo né quello esoterico della vicenda, sfumature usate (sapientemente) per impreziosire la ragione sociale della storia, ovvero i personaggi e le loro relazioni con altri personaggi (o direttamente con il proprio subconscio). Il simbolismo è la vera chiave di lettura del tutto, il film ne è pieno, trabocca: il velo, presente sin dal titolo, attraverso il quale è più facile vedere (ovvero capire) il mistero; i morti, sia quelli veri (il personaggio di Giovanna Mezzogiorno è un medico legale che esegue autopsie) sia quelli che poi ritornano; gli occhi, che talvolta vedono senza vedere (assistiamo spesso anche a ciechi deambulanti per le strade di Napoli); le scale attraverso cui raggiungere luoghi più o meno metafisici; i numeri, codici che celano segreti; gli omosessuali, personaggi sempre positivi ed in qualche modo rivelatori, eccetera. Adriana vive immersa in questi segni del destino, premonitori, annunci di cose che continuamente devono compiersi o avvisaglie di pericoli imminenti. La città che la circonda li amplifica e li riverbera continuamente. E poi c'è il suo passato, segnato da un brutto trauma, risvegliato a sua volta da un altro trauma nella quale si trova, suo malgrado, precipitata.
Il fascino del film sta nell'eleganza e nella raffinatezza con la quale Ozpetek non affonda mai il colpo fino in fondo. Si tiene a galla, cammina borderline su di un filo sospeso nel vuoto, senza mai esagerare né su un versante né sull'altro, oppure recuperando subito quando devia troppo vistosamente. Qualche elemento più grossolano per la verità c'è (mi viene in mente ad esempio Donna Assunta, la medium al cui capezzale viene ad un certo punto condotta Adriana), ma tutto sommato non stona nell'economia complessiva del film, fatta anche di qualche assolo più pacchiano e kitsch. Il grande mestiere di Ozpetek è indiscutibile, bella la fotografia, eccellente la scelta e la resa delle location, intrigante la storia, dialoghi sempre all'altezza, tutto estremamente maturo e professionale. Tuttavia, non sempre mi sono trovato in sintonia con la cifra stilistica del regista turco. Napoli Velata a tratti suona anche pretenzioso, come quando alterna la sensualità delle opere d'arte che Adriana vede al Museo con i flashback del suo amplesso con Andrea (Alessandro Borghi). L'aspetto erotico del film per altro merita due righe a sé. E' molto forte e personalmente neppure me lo aspettavo; succede quasi subito (anche perché è la benzina del motore) e Ozpetek pigia sull'acceleratore. La Mezzogiorno e Borghi sono coinvolti in momenti molto caldi, la cui ottica però tradisce la sensibilità di Ozpetek in materia. Suonerà politicamente scorretto e magari sgradevole, ma diciamo che risulta chiaro da che parte stia Ozpetek. Così come è evidente la cura che mette nel valorizzare esteticamente Borghi. Dalla Mezzogiorno arriva più che altro una performance attoriale di peso, infagottata in camicione oversize e vestitini un po' goffi. Niente di male sia chiaro, solo che si avverte sottotraccia una sorta di "posizionamento" rispetto agli schieramenti in campo. La Mezzogiorno da parte sua ricalca un po' troppo vistosamente le pause, i silenzi, lo smarrimento della terapeuta di Castellitto, Adele, nella serie tv In Treatment; sembra quasi appoggiarsi a quel personaggio per riproporlo anche qui, pur con qualche variazione sul tema. Non mi è piaciuto lo sfruttamento della Mezzogiorno nel doppio ruolo madre/figlia, ci vuole un po' prima che si afferri che di quello si tratta e non di Adriana (la figlia) che compie pure le azioni della madre, essendo identica.
- SPOILER: Così come lo stratagemma del gemello suona un po' abusato per risolvere la vexata questio del doppelgänger, anche se in effetti poi nemmeno quella è la soluzione finale, poiché infatti si approda alla exit strategy sul tipo di Fight Club. La Mezzogiorno è un altro Edward Norton, né più né meno, anche se il tono del racconto è assai più umano e conciliante, ed il buon samaritano caritatevole Biagio Forestieri ci mette una pezza sopra. Pregevole in tal senso il vero finale, nel quale Ozpetek rimescola di nuovo le carte e preferisce lasciare lo spettatore con domande inevase anziché con risposte rassicuranti. E del resto è impossibile sollevare del tutto il velo da Napoli.
Ghiotta l'occasione di ritrovare tanti figli del Golfo, da Anna Bonaiuto (friulana ma di origini partenopee) a Peppe Barra, da Lina Sastri a Luisa Ranieri e a Maria Pia Calzone (queste ultime due purtroppo relegate a ruoli abbastanza minori). Sui generis invece l'interpretazione di Isabella Ferrari, per l'occasione trasformata in una mora ed il cui personaggio è quello che mi ha convinto meno, assieme a quello della Sastri (con la quale fa coppia per necessità di sceneggiatura). Il loro rapporto in scena mi è sembrato manipolato in modo un po' ruffiano, tanto per aggiungere morbosità a morbosità, senza che ve ne fosse una reale necessità nello sviluppo narrativo. Più di una le eco del cinema argentiano, non so se volute o inconsapevoli (certo è che il tema "giallo" si presta alquanto), vedi le scale, la scoperta dei numeri da parte di Adriana, la complicata psicologia della protagonista femminile.