Monamour

Monamour
Monamour

Monamour (2005) è stato massacrato dalla critica, trombona e non, e pure tra i meno avversi a Brass non si è registrato grande entusiasmo per questa pellicola, ad oggi l'ultimo lungometraggio del regista, in stand by anche per gli eventi tragici che si sono verificati nella sua vita negli ultimi anni (la morte della compagna Carla Cirpiani nel 2006, l'emorragia cerebrale che lo ha costretto in ospedale nel 2010), oltre a qualche difficoltà produttiva e distributiva già emersa proprio con Monamour, che in Italia uscì direttamente in homevideo senza passare dalle sale cinematografiche. Il film avrebbe dovuto addirittura esordire al festival di Cannes, ma il direttore Muller, pur esprimendo formale apprezzamento, disse che il regolamento del festival ne impediva la proiezione per "mancanza di valori artistici". Monamour venne comunque regolarmente distribuito nelle sale francesi, mentre in Italia abbiamo dovuto attendere qualche mese per averlo almeno in dvd.

La fonte primigenia di Brass è il romanzo Amare Leon di Alina Rizzi, penna "hard" della letteratura contemporanea italiana (e figuriamoci se Brass non la notava). Il testo non solo è citato nel film, ma c'è in "carne e inchiostro", poiché la protagonista uzbeka Anna Jimskaya ne legge diversi estratti nei primi minuti. Il titolo stesso del film, Monamour, è un gioco di parole (crasi) tra il termine "amour" e la "mona", linguaggio gergale veneto per indicare la patonza. A livello di topoi e contenuti Brass insiste per l'ennesima volta sui suoi concetti chiave disseminati ampiamente in tutta la sua filmografia; adulterio, tradimento e gelosia come potentissimi afrodisiaci per rivitalizzare rapporti di coppia "ammosciati", diari segreti e loro scoperta, voyeurismo, parentesi oniriche, fotografia erotica, culto del deretano e sodomia. Molte situazioni citano episodi già visti in altri film di Brass, i bidet delle attrici, il difficile confronto con i critici, il dialetto veneto, i rapporti sessuali in pubblico, i suonatori di colore che possiedono contemporaneamente la bianchissima Jimskaya - anche se si tratta solo di un sogno - (come in Nerosubianco), la fotografia del corpo nudo come preludio al rapporto sessuale (La Chiave), la tenuta di un diario e la sua scoperta da parte del partner (La Chiave), l'enunciato incendiario che le donne vogliono essere "prese e non comprese" (L'Uomo Che Guarda), la spiccata propensione alla ninfomania (Così Fan Tutte....e qualsiasi ogni altro di Brass da La Chiave in poi).

Detto quindi che Monamour non apporta sostanziali novità alla "poetica" erotica di Brass, e che anzi continua a raschiare il barile, spezzo una lancia a favore delle immagini nude e crude (soprattutto nude) che scorrono davanti agli occhi dello spettatore. Monamour è probabilmente il film più spinto di tutta la carriera brassiana, il porno è a un passo, i genitali (veri e posticci) dominano incontrastati, sono loro i veri protagonisti della storia, naturalmente insieme alle chiappe della bellissima Jimskaya (scelta felicissima, simpatica, fisico perfetto, anche se non maggiorata). In questo senso, il film è assolutamente dirompente, decisamente forte e trasgressivo; non un erotico concettuale, né tanto meno "delicato" o "autoriale", ma metri di pellicola con gli attributi, che non temono di mostrare tutto quello che c'è da mostrare, senza arroganza o violenza, ma con il consueto registro ludico, solare ed epicureo che appartiene a Tinto. La critica di una recitazione troppo sopra le righe degli attori mi pare inadeguata, poiché non coglie l'obbiettivo di Brass, che non è quello di dare verosimiglianza e cronaca alla sua storia, che anzi intende essere paradigmatica e in qualche misura "didattica", per chi è ben disposto ad accettarne i suggerimenti e le indicazioni. In questa ottica, la Jimskaya mi è parsa anzi particolarmente brillante nella sua mimica; deliziosa ad esempio la scena nella quale, immersa nella vasca da bagno, intende confessare il primo tradimento al marito Max Parodi. Questi la ignora bellamente, e lei calca sempre di più la mano nel racconto cercando di impressionare il marito; assai divertenti le espressioni di rabbia e stupore della Jimskaya.

Al solito, Brass è tutt'altro che sprovveduto, e per quanto la sua cifra stilistica possa essere ritenuta volgare, vanno anche sottolineate le numerose citazioni colte presenti in Monamour. Oltre al fatto che il film scaturisce da un testo letterario, l'ambientazione è quella di Mantova, con il suo palazzo del Tè, gli affreschi (a tema) di Giulio Marino, e con le Terme di Abano; Nela Lucic (nel film Silvia, amica della Jimskaya) cita Erika Jong, eroina del femminismo americano, e la sua teoria della "scopata senza cerniera" estratta dal romanzo Paura di Volare; Riccardo Marino (il libidinoso Leon nel film) fotografa la Jimskaya ispirandosi al dipinto di Courbet, L'Origine du Monde; nella scena ambientata al ristorante, dei cantori intonano svariate romanze classiche. Chiaro che i riferimenti culturali graditi a Brass non siano né la patristica latina, né Le Confessioni di Sant'Agostino, né Il Papa di De Maistre, tuttavia non mi stancherò mai di confutare la figurina stereotipata e superficiale di un Tinto Brass vecchio maiale porcellone trippone, unicamente dedito a bordelli e giornaletti porno (anche se il personaggio, essendo dotato di molta autoironia e spirito dissacrante, credo la troverebbe affatto disdicevole...).

Monamour è girato in digitale, la prima volta per Brass, e questo risulta evidente per lo spettatore ad esempio nel primo sogno della Jimskaya, quando insieme a Parodi attraversa un fiume/lago su una barchetta, per poi accoppiarsi tra le frasche, spiata dal solito guardone; la trama dell'immagine tradisce la sua filiazione non analogica, oltre a filtri e colori che imbiancano tutto per trasmettere il senso di irrealtà del momento onirico. Fastidiosissimo il tema ossessivo della canzone intitolata come il film, "Monamour", che incornicia un balletto scatenato e naturalmente scollacciato della Jimskaya, sul finale. Un plauso invece all'attrice uzbeka che accetta un ruolo che farebbe inorridire buona parte delle attrici italiane; praticamente la vediamo più nuda noi in quei 90 minuti che sua madre che l'ha fatta, ma è un "sacrificio" al quale ci si sottopone volentieri. In definitiva, quale che sia l'accoglienza critica ricevuta da Monamour, a mio parere si tratta di un buon film, sorprendentemente migliore persino di alcune delle pellicole più recenti del regista veneto.

Trailer ufficiale

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