Venezia, l'agente Richard Forrest (Roger A. Fratter) viene assunto per studiare il caso "Mery Coltrane" (Mery Rubes), una misteriosa fotomodella dal grande successo social che ha chiesto protezione. Qualcuno la minaccia e, dato che una complicazione tira l'altra, lei stessa si rivela essere un personaggio piuttosto sfuggente ed enigmatico, con una sinistra scia di morte alle proprie spalle. Alcune donne si sarebbero addirittura tolte la vita perché non corrisposte sentimentalmente da Mery, probabilmente figlia di uno stregone indiano dal quale avrebbe ereditato arcani poteri mesmerici e seduttivi. Una donna tanto temuta quanto desiderata, spesso dalle stesse persone. Il biglietto da visita di Fratter, le primissime scene che aprono il film, sono già un manifesto delle intenzioni: uno statuario corpo di donna, adagiato sulle lenzuola, dipinge una silhouette morbidissima, lo smalto rosso delle unghie accarezza il cuscino che fino ad un minuto prima ospitava Fratter; subito dopo si schiudono allo sguardo dello spettatore calli, ponti e paesaggi veneziani. Un'opera d'arte di sensuale carnalità racchiusa ed incorniciata tra opere d'arte architettoniche di aristocratica opulenza. Via via che l'agente Forrest si addentra nel mondo della Coltrane, visionando ossessivamente i suoi vari videoclip autobiografici, viene irretito in modo irresistibile da quello sguardo, da quel corpo, che travalicano lo schermo e gli piantano un chiodo fisso nel cervello, proteggere ed amare Mery Coltrane, ad ogni costo. La definitiva "possessione" è scandita da un messaggio sul blog della fotomodella, varcare la sua porta segreta comporterà l'impossibilità di fare ritorno. Forrest è definitivamente uno schiavo d'amore. La sua unica ragione di vita diventa quindi liberare Mery da chi l'ha nel frattempo rapita, tenendola segregata con brutalità in un ranch sorvegliato con armi da fuoco da un piccolo esercito di sgherri capitanati dalla poderosa Carmen (Valeria Stucchi).
L'apporto al film di Mery Rubes (aka Coltrane) è generosissimo, la macchina da presa flirta con lei mentre l'attrice si spende in ogni modo, giocando con la sua bellezza, con il suo particolarissimo taglio degli occhi, con una fisicità felina e selvaggia, alternando momenti di azione ad altri di sofferenza più psicologica ed emotiva, come richiesto dallo script ordito da Fratter. E tutto ciò anche e soprattutto considerando che la Rubes è in scena quasi sempre nuda o seminuda, con grande agio e naturalezza. Il montaggio alterna i due protagonisti impegnati in situazioni sempre speculari, simbiotiche, e del resto è proprio attraverso uno specchio che la Coltrane lancia il suo incantesimo su Forrest, legandolo definitivamente a sé, così come l’iniziale sinfonia di suicidi delle tre amanti disperate avviene anch'essa allo specchio. Fratter, notoriamente grande appassionato di cinema di genere e segnatamente western, mette in fila tanti particolari di cesello che accrescono l'indubbia atmosfera del film, inserendo nella sua storia parentesi dal taglio esplicitamente western (il suono dei colpi di pistola arriva dritto dalla golden age degli spaghetti western), ibridati con shuriken giapponesi, catfight, lingerie, espedienti thriller e odore di vendetta. Non mancano citazioni gustose (su tutte, il flirt appena accennato con una segretaria, Gloria, che ricorda molto i giochi amorosi di James Bond con Miss Moneypenny). Che dire poi del divertissement metacinematografico di un Fratter "poco sensibile al fascino femminile" (motivo per il quale viene messo alle calcagna della Coltrane), proprio quel Fratter che da sempre ha fatto del suo cinema un'attentissima osservazione dell'universo femminile in ogni suo aspetto, erotismo compreso. Da antologia "cult" la scena nella quale Debby Love gira per casa completamente nuda, impugnando un coltello da cucina, alla ricerca di Fratter per assassinarlo. Pregevoli le musiche di Luciano D'Addetta che arricchiscono sapientemente le scene di questo “Mery Coltrane - La Seduttrice Mortale”, una promessa mantenuta sin dal titolo.
(Recensione uscita su Nocturno n. 215, novembre 2020, pp. 96-7)