La storia di Mata Hari è davvero incredibile, non stupisce che abbia ispirato la cultura di massa attraverso film, opere teatrali, libri, etc. E' diventata l'archetipo della donna spia, un po' come il Bond di Fleming in campo maschile o il Poirot della Christie per i detective (che però sono personaggi letterari). La quantità di film cinematografici e televisivi a lei dedicati è enorme basta provare a digitare il suo pseudonimo (poiché in realtà si chiamava Margaretha Geertruida Zelle) su IMDB per scoprire un elenco sterminato. Mi piace ricordare in particolar modo lo sceneggiato RAI del 1967 con Cosetta Greco nei panni della donna olandese e Gabriele Ferzetti in quelli dell'accusatore capitano Pierre Bouchardon, ma sin dal 1920 la macchina da presa si è dedicata con dovizia e trasporto a quella figura tanto affascinante e misteriosa, dal film di Ludwig Wolff con Asta Nielsen a quello del 1931 con Greta Garbo (forse il più famoso), dal musical del 1982 con Lene Lovich al film con Sylvia Kristel del 1985. Tra i più recenti c'è l'adattamento italiano del 2016 curato da Rossana Patrizia Siclari, su soggetto e sceneggiatura di Giovanna Volpi, interpretato da Elisabetta Gregoraci, Marco Cocci (Bouchardon), John Savage (Edoard Clounet, l'avvocato di Mata Hari nel processo), Fabio Fulco (il tenente Mornet, amante accusatore di Mata Hari, a sua volta poi perseguito per alto tradimento dalla Francia), Francesca Tasini (Justine, la prostituta compagna di cella di Mata Hari).
Il film ha un impianto nettamente teatrale, è molto statico, ha lunghe sessioni di dialogo tra la Gregoraci e Cocci, attraverso i quali - nei loro botta e risposta - ricostruiamo la vicenda della protagonista, e tra la Gregoraci e tutti gli altri personaggi della storia. Ci sono dei flashback e più in generale tutti gli altri ambienti oltre al luogo di detenzione della Zelle, sono set virtuali, nei quali alle spalle degli attori in primo piano c'è uno schermo che riproduce gli ambienti d'epoca nei quali i personaggi si muovono. Ovvio che questo tipo di scelta inchiodi la recitazione ad una certa fissità, esattamente come accade su di un palco teatrale, i movimenti sono limitati, tanto di camera quanto fisicamente degli attori. Per altro è palese che le scenografie siano virtuali e posticce, il che da una parte essendo così dichiarato sfida lo spettatore ad immergersi ancora di più nella finzione, dall'altra può creare un senso di artificio e l'interruzione del principio della sospensione dell'incredulità. Alla lunga la totale assenza di dinamismo pesa sulla visione, che assomma solo e soltanto una serie infinita di dialoghi. Per altro, la sceneggiatura della Volpi si propone una ricostruzione storica piuttosto precisa ed accurata, documentando continuamente nomi su nomi, date e situazioni che lo spettatore magari meno edotto sulla ricca e densa biografia di Mata Hari può far fatica a seguire. E' pieno di ufficiali militari Von questo e Von quello e sentirli snocciolare da Marco Cocci come figurine senza che i due protagonisti nemmeno si alzino mai dalla sedia può creare qualche momento di monotonia. Il tono sempre triste, cupo e addolorato della recitazione, le sontuose musiche di Chopin e Tchaikovsky, acuiscono ulteriormente tale sensazione.
La scelta della Gregoraci è curiosa, secondo la Siclari è stata dettata da una certa somiglianza fisica con Mata Hari (che personalmente faccio fatica a riscontrare) e dal medesimo temperamento delle due donne. Chiaro che il nome della soubrette calabrese sia di per sé una scelta di campo, non tanto e non solo perché prima di lei si nel ruolo sono cimentate attrici come la Garbo (la Gregoraci ha dichiarato di non aver volutamente visto il film del '31), ma soprattutto perché nel mondo mediatico del XXI° secolo un certo tipo di pubblico - al quale tutto sommato il film sembra anche rivolgersi non essendo un'operetta glamour o maldestramente maliziosa ed ammiccante - tende a sottrarsi da una produzione incentrata su di un'attrice la cui etichetta è quella televisiva di marca Mediaset (dunque programmi di intrattenimento piuttosto modesti) e da rotocalco scandalistico. Pregiudizi, senza ombra di dubbio, ma la scelta del casting non mettere in conto questo tipo di feedback; encomiabile la volontà di sfidarli ma ingenuo trascurarli. L'interpretazione della Gregoraci non è fulminante, con le sue vocali un po' approssimative e quell'allure comunque sbarazzino che il film fatica a tenere a freno, delinea - certamente su indicazione anche della Siclari - una Mata Hari fiera, volitiva ma anche agiografica. Una vittima in tutto e per tutto del sistema, della politica corrotta, dell'ipocrisia e degli uomini. Per quanto la sua rimanga una figura controversa e certamente anche vittima di giochi diplomatici avvelenati e incrociati tra la Francia e la Germania dell'epoca, risulta più che acclarato che la Zelle si prestò alla situazione cercando di trarne il massimo vantaggio possibile, mentendo fino al punto da inventarsi un curriculum vitae parallelo e fiabesco, ed amando una pletora infinita di influenti baroni e ufficiali di svariate potenze militari. La sua figura suscita genuina simpatia umana ed anche ammirazione per le doti con le quali seppe navigare in un mare di squali, ma da qui a trasformarla in Giovanna D'Arco che si avvia al martirio cristologico (come avviene nel finale) ce ne passa.
Date le premesse, questa ennesima rivisitazione di Mata Hari poteva essere molto peggio; un film a basso budget, con un uso massiccio e ardito di set virtuali, con un'attrice protagonista che i più civettuoli ricorderanno perlopiù per le pubblicità del wonderbra e per il suo ménage matrimoniale con uno degli industriali più ricchi (e sgangherati) d'Italia, poteva certamente tradursi in qualcosa di fortemente imbarazzante. Ad onor del vero così non è, anche se questo lavoro della Siclari si colloca a metà strada tra un teatro cinematografico ed una resa documentaristica più che assomigliare ad un film vero e proprio. Le va reso merito di non aver giocato sull'aspetto meramente sensuale tanto della Gregoraci (davvero molto casta) che di Mata Hari, avendo invece preferito concentrarsi sull'aspetto umano e politico del racconto. La Gregoraci si esibisce comunque in un paio di danze orientali, in particolar modo nel finale, quando tutto si è compiuto, una sorta di tributo/testamento di bellezza dell'arte e della femminilità di Mata Hari.