Gli anni '50 erano ritenuti anni di grande ipocrisia, anche e soprattutto sul piano delle istanze sociali. Razzismo, antisemitismo, maccartismo, discriminazioni a vario titolo, Hollywood non scalpitava dal desiderio di portarle al cinema, inimicandosi i colletti bianchi americani e magari anche la parte di pubblico più benpensante e conservatrice. Robert Rossen invece era interessato proprio a quel tipo di tematiche, vedendo nel cinema una risorsa, una cassa di risonanza, un mezzo per affrontarle e metterle sotto gli occhi di tutti, per quanto doloroso fosse. Dopotutto era pur sempre la realtà. Si deve anche a Lo Spaccone il ritorno in sala di temi così scomodi e spinosi, affrontati (perlomeno in questo caso) con grandissima maturità, profondità e rigore, oltre naturalmente al mestiere, poiché pur sempre di un film stiamo parlando.Col senno di poi Rossen ebbe ragione da vendere, 10 candidature all'Oscar, due statuette (miglior fotografia e miglior scenografia), premi Bafta ed altri riconoscimenti inquadrarono il film nella giusta prospettiva, anche se nel '61 quel set si prese un bel rischio nell'affrontare così a viso aperto una sceneggiatura come quella. Il titolo originale era The Hustler (il truffatore), ispirato all'omonimo romanzo di Walter Tevis. In Italia diventa Lo Spaccone, mantenendo miracolosamente una coerenza con il personaggio, la cui "spacconaggine" non è solo tratto distintivo ma anche la chiave di lettura principale del film. La spacconaggine di Eddy Lo Svelto (Paul Newman) è infatti la spia della sua debolezza, della sua mancanza di "spina dorsale", attraverso la sua ostentata spavalderia Eddy cerca di nascondere una fragilità che altrimenti lo fregherebbe. Un pregio che è anche un difetto e che, in ultima analisi, lo porterà alla rovina e alla perdita di ciò che aveva di più caro (e dei cui si rende conto solo nel momento della perdita, come recita l'adagio).
Il bianco e nero della fotografia di Eugen Schüfftan scolpisce ombre e tagli di luce come opere d'arte. Ogni inquadratura è esaltata da questo lavoro di fotografia, in particolar modo le scene del biliardo, ambientate in vere sale da biliardo dell'epoca, con tutto il fascino del caso. Adrenalina, tensione, ansia, è possibile respirare ogni cosa, nonostante i fumi di sigaretta onnipresenti, si odora quasi il velluto del tavolo da gioco e la fragranza del gessetto con cui Newman spolvera continuamente la punta della sua stecca professionale. Le due partite tra Eddy lo Svelto e Minnesota Fats (Jackie Gleason) sono epiche, fatte di sguardi e coreografie precise al millimetro. Tra i due era Gleason il vero giocatore di biliardo, Newman imparò appositamente per il film, in un paio di settimane, grazie alle lezioni del campione del mondo, scritturato come consulente e istruttore di Newman. Tuttavia molti colpi (non i più difficili) li effettua davvero Newman, dando prova di una discreta abilità. Il cast si completa con altre due eccellenze, Piper Laurie in una parte difficilissima, che avrebbe meritato l'Oscar e che un'attrice sognerebbe d fare tutta la vita; e George C. Scott, interprete di un "cattivo" di rara crudeltà e amoralità, davvero spregevole ai limiti della sopportabilità da parte dello spettatore. Grande prova nei panni di un essere (dis)umano così abietto. Il tono drammatico dell'intera pellicola è tale nel modo più intenso possibile, raggiungendo vette di disperazione difficilmente riscontrabili altrove. L'incontro tra Eddy lo Svelto e Sarah Packard (Piper Laurie) è quello tra due relitti alla deriva, due anime senza nulla da perdere e tutto da guadagnare, due creature talmente spigolose e frammentate che fanno una gran fatica a riconoscersi bisognose l'una dell'altra.
Lo Spaccone è un film bellissimo ma che fa male, in modo quasi fisico. Tocca temi come l'alcolismo, il suicidio, la sopraffazione; è una storia di ultimi che tentano l'emancipazione, il riscatto, ma sono destinati a fallire, perché nelle tragedie greche così deve essere, il Fato, gli Dei, non hanno pietà. Monumentale Paul Newman, il cui turbamento, la cui irrequietezza, sono palpabili. Ogni sua espressione è puro struggimento, insoddisfazione, rabbia repressa, mancanza. Il primo spaccone sarebbe dovuto essere Frank Sinatra, grande amico di Willie Mosconi (il campione di biliardo), ma fortunatamente il ruolo andò poi a Newman. Temo che Sinatra - discreto giocatore di biliardo - gli avrebbe dato un accento più guascone ed empatico rispetto al dolore di Newman. Terribile la scena dei pollici, momento topico per il quale il film è passato alla storia, ma che è tuttavia solo uno dei passaggi strazianti e tormentati della storia. Si pensi allo stato d'animo di Sarah alla festa del riccone Findley (Murray Hamilton), prologo del terribile finale. Così come nell'immaginario comune Lo Spaccone è diventato un film sul biliardo, quando in realtà il biliardo è solo il catalizzatore dei fatti e dei drammi che esplodono nelle vite dei personaggi. Ciò nondimeno non è difficile capire come le sequenze delle partite possano elettrizzare (ininterrottamente da 60 anni) gli appassionati della stecca. Come è noto il film avrà un sequel 25 anni dopo, grazie a Martin Scorsese, bellissimo pure quello (Il Colore Dei Soldi) e molto rispettoso dell'originale.