Pupi Avati nella sua sterminata carriera è tornato periodicamente ad atmosfere gotiche e nere. Da quelle è partito per la verità con Balsamus (l'uomo di Satana) e Thomas (e gli indemoniati). Nel 1976 dirige uno dei migliori horror italiani (e non solo) di sempre, La Casa Con Le Finestre Che Ridono, quindi Zeder nel 1983. Poi con il filone medievale (Magnificat, I Cavalieri Che Fecero L'Impresa, Dante) recupera in parte certe tematiche, soprattutto per quanto riguarda la connessione con l'ambiente agreste, provinciale, dove grazie anche all'ignoranza certe storielle esoteriche, fiabesche e fantastiche trovano l'humus perfetto per attecchire e fiorire, non di rado scivolando nell'orrore. Negli anni 2000 torna volentieri all'horror con Il Nascondiglio e Il Signor Diavolo. Suppergiù nel mezzo della sua filmografia si piazza L'Arcano Incantatore, una favola nera ambientata a metà del '700 da qualche parte sull'Appennino bolognese. Il contesto agreste nuovamente favorisce quel clima di sospensione (dell'incredulità) che consente allo spettatore di essere calato in una specie di mondo onirico nel quale tutto sembra possibile. A questo si aggiunga la sicura padronanza dei luoghi da parte dell'emiliano Avati, che tuttavia ci prende un po' in giro visto che le location del film fanno riferimento alla zona di Todi, al lago di Corbara (zona di Orvieto) e al castello di Rota (Roma).
Giacomo (Stefano Dionisi) è un seminarista in fuga da Bologna dopo aver ingravidato una donna ed averla indotta all'aborto. Viene assegnato ad un monsignore allontanato dalla Chiesa per le sue sospette pratiche esoteriche. Asserragliato in una torre trasformata in biblioteca sapienziale, Achille Ropa Sanuti (Carlo Cecchi) ha perso il suo precedente aiutante Nerio, che si dice avesse troppa contiguità con il Maligno. Ora Nerio addirittura starebbe tornando dal regno dei morti, per chissà quali scopi. Giacomo si ritrova catapultato nel regno dell'oscurità, spaventato dalle pratiche ambigue del suo signore e tuttavia anche attratto dall'incredibile conoscenza che ne deriva. La storia è narrata in forma di flashback da Giacomo stesso ad un prete. Tutti gli eventi infatti si sono già compiuti e il seminarista ora si ritiene un maledetto che suo malgrado ha stretto un patto col diavolo impossibile da sciogliere. La sceneggiatura di Avati è volutamente aperta, soprattutto nel finale; sebbene non manchino colpi di scena in merito all'identità dell'arcano incantatore, tutto ciò che gli ruota attorno è straniante, enigmatico, evanescente, difficile da fissare con nettezza. Giacomo assiste a fenomeni curiosi, senza una precisa connotazione morale, presenze, luci, sagome; la sua rendicontazione di ciò che accade è pesantemente influenzata dal racconto dei suoi interlocutori, paesani, il prete, le converse (suore a loro volta allontanate dal convento per colpe imprecisate, che continuano a vivere come una comune religiosa nonostante il laicato). Giacomo ha paura ed ha un colpa da espiare anch'egli, che lo porta ad essere intimorito da Dio ma altrettanto dal diavolo, i due poli entro i quali è stretto e stritolato.
Come per gli altri film gotici di Avati, anche ne L'Arcano Incantatore il clima, l'atmosfera, fanno il 90% del film, senza nulla togliere all'ottima interpretazione degli attori, a cominciare dall'oscuro e minaccioso Cecchi. Questa capacità narrativa tutta avatiana di fondere un contesto minimale, affatto rutilante, carico, enfatico, ma anzi fatto di sottrazione e di meraviglia per l'ignoto, crea una formula che lo rende riconoscibile sempre e comunque. Il manto delle cose passate, del timor di Dio, della magia che si sovrappone alla diavoleria, come fossero un'unica cosa, ma soprattutto degli autentici colpi di genio visivi, come il colloquio tra Giacomo e la vecchia dama nascosta dietro il paravento del gufo, il suo guanto di pizzo che più avanti rievocherà in qualche maniera qualcosa di già visto ne La Casa Con Le Finestre Che Ridono, oppure il salasso del monsignore, tutta la complessa procedura attraverso la quale entra in contatto con presenze ultraterrene e dopo la quale deve essere riportato alla lucidità, non senza rischi. Avati sa far paura, creando un velo di inquietudine ed angoscia che fanno presa sullo spettatore. Affascinante l'immensa biblioteca nella quale Giacomo si perde. Quei pochi effetti speciali a cui il film fa ricorso appaiono oggi abbastanza datati e modesti ma già all'epoca si poteva vedere di meglio. Ovvio che non siano la "ragione sociale" del film, fatto più che altro di ciò che viene raccontato e immaginato, tuttavia sono parentesi che sciupano un po' l'incanto generale. Bello il finale senza speranza, severo, austero, cupo, decisamente in linea con il film, senza che Avati si faccia prendere da un senso di redenzione e speranza che sarebbero stati molto cristiani, troppo per un film legato a doppio filo con il diavolo.